sabato 19 marzo 2011

Des Hommes et des Dieux


Visto ieri sera in DVD questo film. Emozioni fortissime.
Riporto il commento di chi sa scrivere meglio di me, ma che ha provato le stesse sensazioni.

Dal blog "Rofrano"
(... ) L'altro è il film più bello che ho visto di recente, non c'entra niente con la danza, ospita Tchaikovsky solo per pochi, indimenticabili minuti (e a parte quelli non c'è musica, salvo la preghiera salmodiata), ed è la storia di un gruppo di monaci francesi la cui trappa in Algeria (siamo negli anni Novanta) è nel mirino dei terroristi e degli integralisti islamici.

Bien, riassumere il film non è il mio forte e non direbbe quel che conta: quel che conta è la scansione della narrazione per immagini, estramamente statica eppure percorsa da una tensione terribile, fissata in cadenze rituali, non solo quando i monaci pregano ma in qualsiasi loro attività, ma sempre più periclitante verso il punto d'arrivo del film, che fin dall'inizio si intuisce. Ogni sequenza è funzionale all'ultima, la annuncia con avvisaglie minuscole e inequivoche, la prefigge come un abisso di orrore e di grazia: e uno dei numerosi colpi di genio del regista è il non farci vedere quel punto d'arrivo cui tutto recava.

Il regista si chiama Xavier Beauvois e il film, Grand Prix della giuria al Festival di Cannes e grande successo in Francia, si chiama Des hommes et des dieux (in italiano Uomini di Dio, che non è proprio la stessa cosa). Gli attori, a cominciare da Lambert Wilson che di solito è perfetto nel ruolo di puttaniere sciupafemmine, e che qui invece fa il padre superiore della trappa, sono mirabili: dietro la veste di ciascun monaco c'è un uomo con la sua storia, il suo passato (uno era idraulico, uno seguita a fare il medico, uno ha la vocazione dello studioso), il suo carattere, i suoi lati buoni e cattivi, il suo modo di reagire alle emozioni primarie e derivate, la paura, la solitudine, il contatto con gli altri, l'orgoglio dell'identità, la tempra nell'affrontare il rischio, il rapporto con l'autorità, il conflitto fra obbedienza e coscienza. Hanno tutti qualcosa in comune: la fede, l'esercizio dell'umile lavoro quotidiano al servizio della comunità di algerini (un piccolo villaggio) dove sono amatissimi da tutti; e, a un certo punto della loro vita, il trovarsi di fronte al nonsenso che è il senso di ogni vita cristiana: l'offerta totale di se stessi con il martirio.

Che valore ha sacrificare la propria vita testimoniando la fede? Sono otto uomini sperduti in un angolo del globo trascurato dalle cronache, che vivano o muoiano non sposta di un filo il corso della storia: qual è il senso di un sacrificio così estremo? E come conciliare la fierezza del martire con l'umiltà del redento? Come non fare del martirio un'insolenza estrema, un'affermazione di superbia? Come difendere la vita, l'utilità della propria esistenza che sostiene quella di tanti altri (i bambini che si fanno visitare dal medico, la donnetta che non sa scrivere e si fa preparare i documenti da un monaco, la ragazza musulmana che sente il bisogno di confidare al vecchio frate cristiano i propri turbamenti sentimentali), e nello stesso tempo essere pronti a donarla senza nulla in cambio? C'è un'opera letteraria incompiuta nel Novecento, cui ha dato poi una meravigliosa reincarnazione musicale Francis Poulenc, che tratta esattamente questi temi: sono i Dialoghi delle carmelitane di Georges Bernanos. Il film di Beauvois sembra ricalcarne la vicenda con una dovizia di dettagliate corrispondenze che è inquietante, se si pensa che invece nulla è frutto di invenzione, e che la storia degli otto monaci è una storia che si è svolta veramente. Ciascuno è vissuto davvero e ha vissuto quello che noi vediamo.

Mentre guardavo il film pensavo continuamente a una frase del Vangelo che è forse la più misteriosa e sconvolgente: "Chi perde la propria vita la troverà", e quel passo del Vangelo verrà letto in un momento del film. "Chi perde la propria vita la troverà": questa verità, che è al centro della vita di ogni cristiano, non perde nulla del suo valore quando a incontrarla è un ateo, come lo sono io. Confusamente e profondamente so che è così: solo nel momento in cui ci si spoglia di difese, proiezioni, senso del proprio interesse, e soprattutto autoconservazione, si sfiora l'assoluta libertà che è la dimensione autentica del sacrificio. E infatti Des hommes et des dieux è un film sulla fede, con il suo mistero inattuale e sgomentante, ma è anche uno stupendo film sulla libertà dell'essere umano, sulla debolezza e l'eroismo, sull'unica cosa che conta e che è l'amore. Non voglio stare a riassumerlo, è uno dei film più strani che abbia mai visto, e so che non mi abbandonerà.

E poi, c'è quella scena con la musica del Lago dei cigni. Musica incongrua perché così profana (così semplicemente e dolorosamente umana) e perché diffusa da uno sgangherato mangiacassette, che è fra i modesti arredi della casa dei frati. Quella scena è il momento di cinema che più mi ha emozionato e commosso negli ultimi dieci anni.


oh si,,,,

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