mercoledì 6 novembre 2013

Cinema: Anni Felici



Nell'anno del referendum sul divorzio, l'Italia di Daniele Luchetti è una famiglia romana in preda al fervore dei tempi tra aspirazioni artistiche d'avanguardia, comodità piccolo borghesi, istanze femministe e amore libero. Guido è un padre sui generis, pittore e scultore, elettosi rappresentante della nuova arte concettuale più per adesione alla moda del periodo che per un'autentica necessità artistica. Di giorno, nel suo laboratorio negli orti della Lungara, trasgredisce le convenzioni sociali modellando i corpi di ragazze accondiscendenti con i nuovi materiali imposti dall'avanguardia, di sera impartisce lezioni sul bello nell'arte dopo la rivoluzione concettuale ai due figli di dieci e cinque anni, Dario e Paolo. La moglie Serena, figlia benestante di solidi commercianti della piccola borghesia cittadina, è una donna semplice attraversata però da una profonda inquietudine che la porterà dall'amore devoto verso un marito libertino alla scoperta del femminismo come riscatto del sé e come esperienza di un sentimento amoroso diverso.
Quest'ultimo film di Luchetti aveva un titolo provvisorio, Storia mitica della mia famiglia capace di definire i margini di un'operazione biografica (storia della mia famiglia) trasfigurata dalla memoria di sentimenti sedimentati nel tempo (storia mitica). Nel corso della lavorazione, il gesto coraggioso della dichiarazione auto-biografica ha lasciato il passo a un titolo nostalgico, Anni felici, che suona come giudizio amaro per una storia famigliare contrastata che il regista, al tempo testimone bambino, avrebbe voluto cogliere in tutta la sua contradditoria vitalità.
In una delle prime inquadrature del film, affisso su di un muro, fa capolino un manifesto elettorale che recita così: "Le donne della famiglia Cervi dicono di NO". Dichiarazione misteriosa se non fosse il 1974, anno del referendum abrogativo della legge che quattro anni prima aveva istituito in Italia il divorzio. A dire NO sul quel manifesto è l'autorevolezza delle donne di una tristemente famosa famiglia anti-fascista i cui uomini (i sette fratelli Cervi) furono fucilati dai fascisti nel '43 (Irnes Cervi, moglie di Agostino, molto si spese per affermare i diritti delle donne). Questo piccolo dettaglio, sullo sfondo murale di un dialogo coniugale, definisce il contesto sociale della storia di una famiglia attraversata per quel che la riguarda dall'impeto dei tempi (divorzio, femminismo, arte concettuale, trasgressione matrimoniale, amore lesbico...), vissuto come di rimbalzo, attori involontari ed etero-diretti.
Gli Anni felici di Luchetti sono però anche gli "anni di piombo", quelli - per rimanere nel '74 - della strage a Piazzale della Loggia a Brescia (28 maggio), della bomba sull'Italicus (4 agosto) della crisi energetica e dell'austerità. Sorprende un po' che la Roma di Guido e Serena non risenta minimamente di quell'atmosfera, riportando invece una dimensione dinamica, una scena artistica vissuta ardentemente tra gallerie d'arte e triennali milanesi, molto colorata e trasgressiva, come voleva essere. Il motivo è presto detto: tutti gli eventi sono filtrati dalla memoria emotiva di un bambino di dieci anni, Dario (alter-ego del regista), figlio e testimone muto di quella stagione dalla quale ha voluto espungere il contesto politico per isolare quello famigliare e sociale (l'avvento del femminismo). Se volessimo considerare questo film come il terzo passaggio di un'ideale trilogia, vien facile dire che il racconto storico-politico si sia esaurito in Mio fratello è figlio unico, mentre quello sull'oggi da La nostra vita. Il terzo atto quindi si insinua in un'altra dimensione che non è più né storica né politica, ma potremmo dire emotiva e personale.
Ecco, allora che s'arriva a una novità, anche estetica, non indifferente per Luchetti. Sebbene Anni felici sia un film d'invenzione, la storia è quella della sua famiglia, ed il vero e il falso si intrecciano uniti dal filo rosso dei ricordi emozionali.
Ad avvalorare questa premessa è la scelta della voce-off: a "recitarla" è lo stesso Luchetti che impersona il personaggio di fantasia, il bambino Dario (suo alter-ego) che a distanza di anni racconta gli eventi del '74. Ecco che subentra nel cinema di Luchetti la "prima persona" nella formula, già scandagliata in letteratura dell'auto-fiction, anticipata dal Caro diario di Nanni Moretti, suo amico e maestro.
Luchetti è un regista dalla vocazione narrativa tradizionale, eppure ha saputo dimostrare soprattutto negli ultimi film una certa curiosità verso altri linguaggi ed esperienze cinematografiche. Ad esempio, l'idea dei dialoghi fuori fuoco, sporchi e sovrapposti, vicina al "cinema del reale" di Garrone, hanno influenzato l'estetica meno convenzionale di Mio fratello è figlio unico e La nostra vita. L'avvento della prima persona, l'uso dei filmini famigliari (anche se qui ricostruiti) in super 8, il discorso legato al femminismo, a noi hanno fatto pensare alle esperienze dell'altro cinema italiano, documentario e di montaggio. Chissà de Lucchetti l'ha in qualche modo assorbita.
A parte i riferimenti, involontari o meno, Anni felici si pone come un film solidamente convenzionale (forse un po' troppo) e saldamente narrativo, che molto s'appoggia sulla perfomance dei due attori protagonisti. Kim Rossi Stuart, com'è del suo metodo recitativo, trasforma in modo autoriale il personaggio nella somma delle sue complessità, dando spessore e corpo a una figura sulla carta fragile, tutta schiacciata da un'ossessione artistica fasulla e da un narcisismo quasi adolescenziale. Micaela Ramazzotti, istintiva e fisica, sembra affidarsi alla scrittura, un po' come il suo personaggio, scoprendo poi una profondità emotiva e un'istanza di genere impreviste.
C'è però qualcosa che non torna in Anni felici, anche se tutto sembra essere al suo posto. Non è facile capire cosa. Forse il fatto che Luchetti non è riuscito a prendere, anche legittimamente, la giusta distanza. È troppo dentro per vedersi da fuori. Forse anche lui è vittima a posteriori di un narcisismo represso, tant'è che il film chiosa con l'affermazione urlata del proprio Io. Dei suoi ultimi tre film, questo è forse il più fragile ma certo comunque autentico e onesto, anche solo per aver avuto il coraggio di ri-affermare che per lui il personale è politico.

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