venerdì 30 maggio 2014

Cinema: Le Meraviglie


Delicato e sensibile, un film afferrato dagli sguardi di padre e figlia, riconciliati in un campo e controcampo che rinnamora e annulla la distanza

Gelsomina è un'adolescente introversa che vive nella campagna umbra con i genitori e le sorelline. Primogenita tutelare e solerte nelle faccende familiari, Gelsomina è inquieta e vorrebbe andare via, scoprire il mondo che comincia dopo il suo casale. A trattenerla è un padre esclusivo e operaio, alla maniera delle sue api, che guarda a lei ancora come a una bambina. La loro routine, scandita dalle stagioni e dall'impollinazione delle api mellifere, è interrotta dalla presenza di una troupe televisiva e dall'arrivo di Martin, un ragazzino con precedenti penali che deve seguire un programma di reinserimento. L'esoticità di una conduttrice tv e di un adolescente senza parole impatteranno la vita di Gelsomina e della sua famiglia, promettendo ciascuno a suo modo 'meraviglie'. L'estate intanto sta finendo e una nuova stagione è alle porte.
Truffaut diceva che "l'adolescenza lascia un buon ricordo solo agli adulti che hanno una pessima memoria" ma quella di Gelsomina sembra essere una stagione felice, condivisa con la natura e una famiglia anarchica che parla italiano, tedesco e francese. Figlia di Wolfgang e di Angelica, la giovane protagonista di Alice Rohrwacher, conferma il coinvolgimento della regista per quell'età delicata di cui coglie ancora una volta la gravità rispetto alla futilità della vita adulta. Perché l'adolescenza porta con sé la scoperta dell'ingiustizia, dell'impunità dell'adulto, a cui tutto è permesso, anche un cammello in giardino. Di contro, una ragazzina che rovescia il miele nel tentativo di rendersi utile, crede di aver commesso un delitto, di aver deluso il padre, referente mitizzato e maschile dei suoi pochi anni. Ma l'ora del distacco suona e arriva con Martin, un piccolo amico che le corrisponde e che la corrisponderà. 
Delicato e sensibile, lo sguardo di Alice Rohrwacher si infila in quella relazione, realizzando una nuova cronaca dell'adolescenza dopo quella di Marta, corpo celeste dentro un paesaggio urbano depresso e fanaticamente osservante. Il talento dell'autrice, rivelato nel suo primo lungometraggio e negli interstizi di una Calabria miserabile e bigotta che simulava interesse per la formazione spirituale dei sui figli, si riconferma ne Le meraviglie e dentro un paesaggio rurale che esalta la sua vocazione documentaristica. 
Attraverso gli occhi di Gelsomina contempliamo una comunità 'dissidente' che si è ritirata in una dimensione bucolica, dove produce miele, insaccati, marmellate, salse di pomodoro e prova a resistere al mondo fuori. Un mondo che prende la parola e il microfono per mezzo della televisione regionale e naïf, dei suoi concorsi a premi, le coreografie rudimentali, le melodie stupide, le promesse di fare meraviglie per la gente del luogo. Ma la vera meraviglia è assicurata dalle api di Wolfgang e dischiusa dalla bocca acerba di Gelsomina, che ha il nome di un fiore e come un fiore è richiamo per le api. 
Indeciso nella prima parte sulla strada da percorrere, Le meraviglie è intuito e afferrato dagli sguardi di Alexandra Lungu e Sam Louwyck, figlia e padre riconciliati in un campo e controcampo che rinnamora e annulla la distanza. Ramingo sulla natura e sugli ambienti, il film aderisce progressivamente al personaggio centrale, Gelsomina, ormai aliena alla sua 'comunità' e pronta a salpare per l'isola che c'è e ha il volto di Martin e di una nuova età. Wolfgang, preferendo finalmente farsi amare che temere, la 'reintegra' in seno alla famiglia, ammirando la giovane donna che è diventata dentro una notte chiara. Per loro è il tempo della comprensione, è il conseguimento della complementarietà: Gelsomina è uguale a suo padre, Gelsomina è diversa da suo padre. È un corpo che spinge alla vita ma spinge a suo modo. A papà non resta che guardarne la bellezza, accettando la legge irreversibile delle stagioni.


lunedì 26 maggio 2014

Milonga: Biko

Serata di grande energia, con fin troppe ballerine interessanti.
Ballato parecchio con conosciute e nuove (Barbara) e molte mi sono purtroppo sfuggite...


sabato 24 maggio 2014

Teatro: La Ronde de Nuit


La ronde de nuit è una creazione collettiva del gruppo afgano Théâtre Aftaab (“sole” in lingua dari).
Il gruppo è nato nel 2005 da un laboratorio che la Mnouchkine ha tenuto a Kabul. Dopo aver messo in scena alcuni spettacoli in patria, gli artisti sono stati costretti a lasciare l’Afghanistan e hanno scelto come patria adottiva la Francia.
Ne La ronde de nuit gli attori afgani mettono in scena la storia, divertente e tragica, della loro vita. Nader, un rifugiato afgano, è finalmente riuscito a trovare un lavoro: guardiano notturno di un teatro. Ed è un teatro che assomiglia straordinariamente al Théâtre du Soleil. In questi tempi di crisi, un lavoro è oro e Nader fa di tutto per rispettare minuziosamente le disposizioni che gli ha dato la direttrice (una donna che ha la stessa ruvidezza e la generosità della Mnouchkine): fare un giro di ronda ogni due ore, non lasciare entrare nessuno tranne una giovane artista di cabaret che “momentaneamente” alloggia in teatro, un barbone che ha il permesso di utilizzare le docce a condizione che sia sobrio. Ma in una gelida serata d’inverno in teatro si trovano altre persone, un gruppo eterogeneo che ruota attorno al mondo di periferia e border line del quartiere parigino di Vincennes. Fuori infuria una tempesta di neve. E tutti chiedono rifugio per quella notte…

La ronde de nuit
una creazione collettiva da un’idea di Ariane Mnouchkine
messa in scena da Hélène Cinque
raccontata, sognata e improvvisata da Haroon Amani, Aref Banuhar, Taher Baig, Saboor Dilawar, Mujtaba Habibi, Mustafa Habibi, Sayed Ahmad Hashimi, Shafiq Kohi, Asif Mawdudi, Farid Ahmad Joya, Wioletta Michalczuk, Caroline Panzera, Ghulam Reza Rajabi, Harold Savary, Omid Rawendah, Shohreh Sabaghy, Wajma Tota Khil
Théâtre Aftaab

spettacolo in francese e in dari sovratitolato in italiano

mercoledì 14 maggio 2014

Cinema: La principessa Mononoke



In seguito allo scontro con un animale posseduto da un demone il principe Ashitaka viene contaminato da una maledizione mortale. Si mette dunque in viaggio per scoprirne l'origine e chiedere una cura al grande Dio Bestia, l'unico in grado di guarirlo. Arrivato nelle regioni da cui proveniva la bestia scopre una guerra tra uomini e una forma primitiva di animali della foresta, giganti, senzienti e aiutati da quella che chiamano la Principessa Spettro, una ragazza cresciuta dai lupi che ha rinnegato gli uomini. Dall'altra parte gli uomini, capitanati da Lady Eboshi che gestisce con amore, giustizia e pietà il suo villaggio di fabbri, vogliono lavorare la montagna e abbattere gli alberi per poter estrarre il ferro (fonte di ricchezza). In mezzo un gruppo di monaci cerca di fomentare gli uomini ad uccidere il Dio Bestia e rubarne la testa perchè, si dice, fornisca l'eterna giovinezza.
Il più avventuroso e apparentemente il più canonico film di Hayao Miyazaki è stato quello che l'ha reso definitivamente famoso in Occidente anche presso il grande pubblico, il primo distribuito in America da una grande major. Arrivò in Italia in un'edizione tradotta molto male che ne modificava il senso, la lingua e alcune frasi semplificandolo per renderlo più comprensibile ai bambini. Ora che i diritti li ha acquisiti la Lucky Red ritorna al cinema ritradotto e ridoppiato. Il risultato è oltre ogni immaginazione e si può parlare per molti versi di un altro film, lontano da molte cose che pensiamo appartenere a Miyazaki (certi dialoghi impressionano per efferatezza) e dotato di un'aulicità nel registro parlato che ne modifica l'aria generale.
Anche in italiano dunque possiamo finalmente apprezzare questo film d'avventura in cui la morte sembra essere continuamente pronta ad arrivare per colpire con grande violenza e nel quale il concetto di conflitto viene declinato in tutte le sue possibilità (uomini contro uomini, uomini contro natura, animali contro animali).
Però là dove La principessa Mononoke impressiona è nella maniera in cui si allontana da tanti luoghi comuni dell'animazione stessa (gli animali parlano ma senza essere antropomorfi, non hanno espressioni umane nè muovono la bocca come farebbero in un film Disney, mantengono la dignità dei loro veri movimenti), travalicando la propria endemica immaterialità e riuscendo a donare pesantezza e concretezza ad ogni persona, come si capisce quando San è colpita da un fucile sulla maschera o vedendo la massa in movimento dei cani selvatici o infine dalla spettrale leggerezza dei guerrieri travestiti da cinghiali. Si tratta a tutti gli effetti dell'equivalente animato del miglior uso possibile dei corpi nel cinema dal vero. Ma ancora più fuori dai canoni in questa storia ci sono due protagonisti uniti da un sentimento strano, intenso ed improvviso eppure diverso e superiore al consueto "amore da film" cui siamo abituati.
San e Ashitaka potrebbero unirsi (come suggerisce a lei la madre-lupo) ma non è mai chiaro se accadrà, perchè uno rappresenta la razza umana e l'altra è la natura, il loro rapporto è di inevitabile amore ma di difficile unione.
Più in profondità però La principessa Mononoke fonde mitologie differenti tra loro cercando di mettere a frutto ad un livello superiore di scrittura l'importanza che il contesto esotico ha nel cinema d'avventura. In questa grande storia di un conflitto epico nel quale due individui si incontrano e cercano disperatamente di rimanere uniti, la natura di luoghi remoti (fondamentale nei racconti avventurosi) è parte in causa, diventa una fazione con sue volontà e sue idiosincrasie (si veda la follia dei cinghiali che mette in pericolo tutti). Dall'altra parte Ashitaka è un eroe solitario che viene dalla tradizione americana e western (ampiamente imparentata con quella giapponese del cinema di samurai): arriva da un altro luogo e cerca di risolvere tutto senza parteggiare per nessuno. Sono quindi profondamente diversi tra loro i due protagonisti e il film non ne fa mistero, sembra volerli unire rendendosi conto però della loro intima lontananza, risultato che forse è la più profonda e clamorosa conquista della narrazione audiovisiva miyazakiana. È infatti a partire dalle immagini che il film li avvicina (la rivelazione dell'amore da parte di Ashitaka in fin di vita) e li allontana (mostrandoli sempre ad una certa distanza l'uno dall'altro).
Capace come suo solito di non parteggiare per nessuno, spiazzando nella maniera in cui nega le consuete contrapposizioni granitiche che conosciamo tra buoni e cattivi, questa volta l'unione di un dinamismo non comune nell'animazione (la vera conquista e lo specifico irripetibile del cinema di Hayao Miyazaki sono i movimenti dei suoi personaggi) e di una narrazione che rifiuta di dare allo spettatore ciò che si aspetta è così travolgente da riuscire nell'ardua impresa di empatizzare con tutte le parti in causa senza peccare mai in coerenza.

Uno dei pochi film di miyazaki  che ancora non avevo visto. Bello ma con qualcosa nella trama che non mi ha convinto. Il castello incantato rimane ancora il mio preferito

lunedì 12 maggio 2014

Milonga: Biko

Bel biko stavolta. Musica bella, gente si ma abbastanza vivibile, ballerine giuste.


sabato 10 maggio 2014

Cumple Illegal



Si festeggia forse il settimo fose l'undicesimo compleanno del Tango Illegal.
Tanta gente è venuta, anche chi non balla da tempo.
quindi occasione per salutarsi, rivedersi, magari ballare assieme.
Un bel momento



lunedì 5 maggio 2014

Balletto: LE QUATTRO STAGIONI Spellbound Contemporary Ballet




Musiche originali di Luca Salvadori - musiche di Antonio Vivaldi
Coreografie di Mauro Astolfi


Non c’è musica più celebre delle “Quattro stagioni” di Vivaldi. Ma il coreografo Mauro Astolfi, con lo strepitoso Spellbound Contemporary Ballet, fa uso della partitura per creare un lavoro coreografico del tutto nuovo. Tutto si accentra in un unico elemento scenico: un grande cubo mobile che si rivelerà una casa stilizzata. È il corpo, nella sua complessa interiorità, concepito come dimora, e la pelle come le pareti del nostro mondo. Astolfi crea un affascinante gioco di echi e di rimandi e la casa diventa rifugio, albero, cielo, terra, e a visualizzarlo sono immagini e filmati proiettati - uno stelo che diventa pianta, la pioggia battente, le nuvole passeggere - che suggeriscono lo scorrere delle diverse stagioni.

Balletto interessante, coinvolgente. Ballerini non eccezionali ma coregrafie belle specie sulla musica di Vivaldi

sabato 3 maggio 2014

Cinema: Brick Mansions


A Detroit un complesso popolare e dominato dalla malavita viene isolato dal resto della città tramite un muro di cinta e soldati dell'esercito a controllare chi entra e chi esce. Il sindaco dice che è per proteggere gli altri cittadini, in realtà dentro le case di mattoni della zona ribattezzata brick mansions il crimine decuplica e si rafforza. Quando il boss della zona viene in contatto con una valigetta contenente una bomba che inavvertitamente attiva, la polizia manda dentro uno dei suoi uomini sotto copertura, assieme ad un carcerato che conosce l'area, per disinnescarla prima che esploda. Hanno 10 ore di tempo per entrare, menare tutti, inserire i codici ed uscire, peccato che qualcuno ha preso in ostaggio la ragazza di uno dei due.
Sono pochissime le variazioni introdotte da Brick mansions rispetto al suo originale Banlieue 13, action urbano che nel 2004 creava un piccolo franchise parigino con al centro David Belle, co-fondatore del parkour (disciplina e movimento), già stuntman e da lì attore di film d'azione. Dieci anni dopo Belle approda in America con il medesimo ruolo accanto a Paul Walker (nell'ultimo ruolo prima di morire), insolita coppia da solito buddy movie con trama prelevata di peso dalla sceneggiatura che frulla ogni luogo comune del poliziesco, scritta all'epoca da Luc Besson, implausibile e iperbolica come solo l'autore francese sa concepire (specie quando poi non deve anche girare).
Per ogni cretineria e clamoroso buco di questa sceneggiatura che fa realmente acqua da tutte le parti c'è però David Belle, presenza che di nuovo movimenta tutto, per fortuna coadiuvato da Camille Delamarre, regista con passato da montatore che taglia solo quando indispensabile, filma a figura intera e usa pochissimi stunt in modo da non perdere un'evoluzione ed esaltare il dinamismo del suo attore con il massimo della comprensibilità anche nelle sequenze più complesse e i movimenti più imprevedibili (la combinazione dei due dà vita ad una fuga iniziale che non teme il paragone con quella in parkour che apre Casino royale). Se in Occidente può esistere qualcosa che inscrivibile anche solo vagamente nella medesima categoria dello stupore visivo delle azioni di Jackie Chan, David Belle prova a renderlo realtà e il suo solo agitarsi in questo tentativo vale il prezzo del biglietto. Che il suo personaggio poi sia dotato dell'atteggiamento migliore nei confronti del mondo (per un film del genere) è solo un punto in più in una partita già vinta.
B-Movie asciuttissimo che rispetto all'originale si percepisce appartenere ad un'altra epoca dell'action movie, quella successiva alla comparsa sugli schermi di The Raid: Redemption (vero spartiacque come nel 1999 lo fu The Matrix), Brick Mansions segue l'azione con macchina a mano, sembra partecipare ad essa e applica un ritmo completamente diverso rispetto a Banlieue 13. Il risultato è una miniera di divertimento se si ha la grazia e il buon gusto di non pretendere elementi fuori luogo come l'approfondimento delle psicologie o particolari velleità sociopolitiche (tutti i ricchi sono malvagi tutti i poveri sono, in fondo, delle brave persone) da questi 89 minuti tiratissimi nei quali un solo dialogo in più avrebbe stonato.


giovedì 1 maggio 2014

Ristorante: l'Osterì


L’Osterì nasce dall’idea di creare un ambiente caldo e accogliente dove protagonisti sono i prodotti genuini e freschissimi, tutti italiani.
Il vino della casa, imbottigliato per noi dall’azienda agricola LeLùsi viticoltori.
La fassona piemontese lavorata dalla macelleria Oberto di Alba.
L’olio dell’isola di Ustica, fornitoci dall’azienda agricola Le Tre Case.
Le mozzarelle, prodotto artigianale del caseificio Centro della Mozzarella.
Arrivi giornalieri di pesce fresco.
L’Osterì in tre parole: genuinità, golosità, accoglienza.
Ogni giorno un menu diverso per pranzo, mentre per cena un menu alla carta che cambia ogni mese.

Ristorante nato sulle ceneri di "Pane e Salame" che tanto piaceva a Filo..
Frequentato essenzialmente da compagnie di giovani ha un menu abbastanza ristretto ma di buona qualità. Non regalato.

Cinema: La Sedia della Felicità


Bruna è un'estetista che fatica a sbarcare il lunario. Tradita dal fidanzato e incalzata da un fornitore senza scrupoli, riceve una confessione in punto di morte da una cliente, a cui lima le unghie in carcere. Madre di un famoso bandito, Norma Pecche ha nascosto un tesoro in gioielli in una delle sedie del suo salotto. Sprezzante del pericolo, Bruna parte alla volta della villa restando bloccata dietro un cancello in compagnia di un cinghiale. In suo soccorso arriva Dino, il tatuatore della vetrina accanto, che finisce coinvolto nell'affaire. Scoperti il sequestro dei beni di Norma e la messa all'asta delle sue otto sedie, Bruna e Dino rintracciano collezionisti e acquirenti alla ricerca dell'imbottitura gonfia di gioie. Tra alti e bassi, maghi e cinesi, laguna e montagna, Bruna e Dino troveranno la vera ricchezza.
Radicato nel Nordest, La sedia della felicità ribadisce il territorio del cinema di Carlo Mazzacurati e punta su due losers 'spaesati' e approdati, chissà come e chissà quando, al Lido di Jesolo. A Dino e Bruna, alla maniera dei personaggi lunari e malinconici de La lingua del Santo, capita l'occasione della vita, un tesoro da trovare per cambiare la sorte e risollevarsi dai propri fallimenti. Ma il Veneto che abitano, e che attraversano oggi in lungo e in largo, è meno florido e la sua ripresa ogni giorno più lontana. A cambiare è pure il paesaggio antropologico, la composizione sociale di paesi e città a bagno nell'acqua e alle prese con tempi grami. Tempi che contemplano nondimeno il miracolo e allontanano, nella ricerca della felicità, la solitudine sempre in agguato. In una regione e in un mondo dove tutto va in panne, si rompe e si spezza, dove anche i traghetti alle fermate sembrano incapaci di ripartire, un'estetista e un tatuatore restano invischiati in qualcosa che non avevano previsto e che ha a che fare con la riscoperta dei sentimenti e dell'amore. Con garbo surreale, la commedia dinamica di Mazzacurati cambia lo stile di versificazione del suo cinema, sperimentando una scansione del racconto che pratica leggerezza e sorriso. Si (sor)ride tanto con La sedia della felicità, che 'esagera' rimanendo fedele al reale. Divertito, lieve e personale, lo sguardo dell'autore veneto coglie ancora una volta le contraddizioni esistenziali, trasfigurandole e deformandole in una rapsodia dominata dal caso, per caso avvengono gli incontri, gli abbandoni, le rivelazioni, i ritrovamenti. Per intenzione, gioco e tanto amore avviene invece l'agnizione, la rivelazione dei personaggi e il riconoscimento degli attori che hanno fatto e frequentato il cinema di Mazzacurati. Giuseppe Battiston, Roberto Citran, Antonio Albanese, Fabrizio Bentivoglio, Silvio Orlando, Natalino Balasso 'accarezzano' con malinconica dolcezza una commedia che chiede a gran voce la sospensione dell'incredulità. Fuori dal gruppo, congedato con onore, debuttano Valerio Mastandrea, paladino gentile dai tempi comici perfetti, e Isabella Ragonese, nostra signora delle Dolomiti, piena di grazia e riservata bellezza. Presidente della Fondazione Cineteca di Bologna e allievo nel DAMS degli anni Settanta, Carlo Mazzacurati 'incontra' dentro un cimitero (anche) Gianluca Farinelli, direttore della Cineteca emiliana, che alla maniera del cinema pone rimedio alla finitezza umana, risolvendo il suo desiderio di eternità (e di felicità).

Film molto divertente e ben fatto