venerdì 20 novembre 2015

Cinema: Hunger Games - il canto della rivolta parte 2

Che dire: pur con tutti i suoi limiti ed un finale "alla Harry Potter", il film non è male. 


Si conclude la saga più importante dei nostri anni, capace di ribaltare il rapporto tra sessi e rappresentare le contraddizioni moderne: il miglior romanzo di formazione per le ragazze contemporanee
Gabriele Niola      *  *  *  *  -

La resistenza si sta facendo sotto. I distretti ribelli sono ormai tutti riuniti sotto un'unica bandiera, quella dei ribelli, e sta per iniziare la marcia verso Panem, prenderla equivale a destituire il regime. Katniss è l'arma numero uno della resistenza, non per le sue doti di stratega o per la sua abilità sul campo, ma per la sua immagine. Prima sfruttata come volto simbolo dell'intrattenimento e della distrazione di massa, ora è invece diventata il corpo della ribellione, l'unica a cui la massa dia ascolto, l'unica a cui tutti credano anche se la sua immagine è stata continuamente manipolata. Per questo motivo decide di abbandonare i ribelli (che non sono meglio del regime) e di cercare di trovare la sua vendetta e uccidere il presidente Snow da sola. Ora tutti la vogliono morta però: la vuole morta Peeta, che ha subito il lavaggio del cervello; la vuole morta il presidente Snow; la vuole morta la resistenza, perché diventerebbe un martire e unirebbe ancora di più le truppe.
Dopo quattro film si chiude la saga di Hunger Games e la chiusa è, una volta tanto, una conclusione impeccabile e rispettosa delle domande e dei problemi che tutta la saga ha sollevato rispetto alla realtà che vivono i suoi spettatori (in linea di massima compresi tra i 13 e i 30 anni). La storia di Katniss Everdeen rispecchia il miglior romanzo di formazione possibile per le ragazze contemporanee, un romanzo che le mette in guardia e le prepara al vero terreno di negoziazione dell'età contemporanea, quello dell'immagine.
Che tutta la saga sia un ribaltamento dell'action movie di fantascienza classico è evidente fin dall'inizio, dalla maniera in cui la protagonista non combatte sul terreno degli uomini ma anzi sposta il conflitto su dinamiche, idee e strumenti propri dell'universo delle ragazze. Il suo miglior aiutante è uno stilista; sono i suoi abiti a determinarne il successo; è la treccia che porta sempre il dettaglio che prima di tutti si diffonde tra il pubblico e la fa individuare come un nemico del potere. Infine qui sono i vestiti a salvarla anche fisicamente. Katniss combatte prima di tutto con la propria immagine e poi con le frecce, perché, dice Hunger Games, il corpo della donna è l'arma più potente e pericolosa, l'oggetto desiderato da tutti, a cui tutti vogliono dare un significato proprio. Katniss lotta per salvare il suo amore (Peeta, di fatto sempre in pericolo, sempre bisognoso di essere protetto o salvato da qualcosa) e per essere autonoma; che quest'autonomia passi per un percorso di liberazione dai "partiti", dalle "fazioni" e da qualsiasi aggregato ideologico è solo un segno dei tempi. In Il canto della rivolta - Parte II la resistenza non si rivela migliore del regime e non c'è alcun valore per il quale si batta la protagonista, se non per difendere il diritto di non essere usata.
Diretto con molta più concretezza rispetto ai precedenti due capitoli, quest'ultimo film rifiuta qualsiasi idea di eroe predestinato o di gloria: non ci sarà nessun finale epico per Katniss, anche questo in controtendenza con qualsiasi narrazione adolescenziale. Nella grande chiusa la protagonista si dimostrerà più nichilista che mai. 
È qui decisamente evidente come dietro questa saga ci sia molto più di quel che siamo abituati ad aspettarci dal cinema hollywoodiano di immenso incasso, dalle grandi saghe e dai film di intrattenimento. Nonostante le più consuete trovate finalizzate ad un'azione molto semplice e basilare (un filo di simil-morti viventi, un po' di scene grandiose ed esplosioni clamorose non si negano a nessuno con quei budget), in Il canto della rivolta - Parte II finalmente tornano a battere una testardaggine ed un'ostinazione arrogante nel portare avanti le proprie idee che non vedevamo dal primo film. La forza con cui si batte contro tutte le persone che vogliono impadronirsi della potenza dell'immagine del suo corpo è esemplare di un universo in cui l'immagine fissata (foto come video) diventa centrale nella costruzione dell'identità individuale. E in Hunger Games qualsiasi ripresa mente: non c'è video di repertorio o immagine filmata che i protagonisti guardano che non dica il contrario di quel che è accaduto realmente.
A contribuire a rendere questa saga un perfetto manuale di umanità di questi anni ovviamente è Jennifer Lawrence, molto più determinante di attori decisamente più navigati (Julianne Moore, Woody Harrelson o Philip Seymour-Hoffman). Il suo è un personaggio spinoso perché costantemente antipatico, brusco, scontroso e depresso, non ha gioia nè vuole piacere (ma piace, piace a tutti nel film e fuori dal film), eppure la Lawrence ha un'intima onestà sentimentale che colpisce. Quest'attrice in grado di mettere in mostra capacità impressionanti anche su testi molto semplici come quelli di Hunger Games rende complessa qualsiasi cosa. Si guardi solo la prima scena, in cui le viene controllata la gola dopo che la persona a cui più tiene ha tentato di strangolarla: senza parlare, con un'espressione sola e unicamente ritraendosi riesce a trasmettere una concreta impressione di paura indotta da un trauma in maniera personale, come se fosse la prima a farlo nella storia del cinema. Questo genere di complessità, spalmata per tutti i 4 film, fa sì che la saga possa compiere il salto definitivo e riesca a rendere umane e concrete tutte le sue idee.

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