venerdì 29 aprile 2016

Milonga: Che Bailarin

dopo la mezza delusione di martedi avevo voglia di ballare tento, quindi ho fatto il bis settimanale.
Serata non troppo affollata, con molte presenze nuove o che non vedevo da tanto.
Ballato bene con due signore svizzere, bene con Giovanna, malino con un altro paio di signore e molto bene nel finale con Valentina.
Obiettivo della serata raggiunto.

Milan Image Art Fair

Secondo appuntamento con questa bella fiera di fotografia. Livello medio inferiore agli scorsi anni, ma con alcuni picchi molto interessanti, di cui riporterò i lavori più avanti..


giovedì 28 aprile 2016

Cinema: Il figlio di Saul


Film tostissimo, teso, di un orrore terribile ma mai mostrato nitidamente, Si impazzisce all'idea che l'uomo sia capace di tale inumanità.
Con Gio
Locandina italiana Il figlio di Saul

Un incubo a occhi aperti in cui un padre ha perso la battaglia con la vita ma vuole vincere quella con la morte
Marzia Gandolfi      *  *  *  1/2  -

Ottobre 1944. Saul Ausländer è un ebreo ungherese deportato ad Auschwitz-Birkenau. Reclutato come sonderkommando, Saul è costretto ad assistere allo sterminio della sua gente che 'accompagna' nell'ultimo viaggio. Isolati dal resto del campo i sonderkommando sono assoldati per rimuovere i corpi dalle camere a gas e poi cremarli. Testimoni dell'orrore e decisi a sopravvivervi, il gruppo si prepara alla rivolta prima che una nuova lista di sonderkommando venga stilata condannandoli a morte. Perduto ai suoi pensieri e ai compagni che lo circondano, Saul riconosce nel cadavere di un ragazzino suo figlio. La sua missione adesso è quella di dare una degna sepoltura al suo ragazzo. Alla ricerca della pace e di un rabbino che reciti il Kaddish, Saul farà la sua rivoluzione.
Aveva ragione Jacques Rivette, la vocazione dei film che trattano la Shoah è quella di essere discussi, il rischio quello di essere contestati. Sulla materia esiste un corpo teorico che resiste e non smette di provocare fruttuose controversie: due articoli ("De l'abjection" di Jacques Rivette e "Le travelling de Kapo" di Serge Daney) e un film monumentale (Shoah) che hanno articolato ieri la relazione tra l'orrore e la sua rappresentazione, tra la storia dei campi e quella del cinema. La domanda oggi è sempre la stessa, come fare a raccontare un avvenimento che per la sua dimensione e il suo peso di orrore sfida il linguaggio? Come rendere conto dell'universo concentrazionario senza sottostimarne l'orrore?
László Nemes, regista ungherese al suo esordio, prova a rispondere prendendosi il rischio e la responsabilità formale e morale attraverso un film che sceglie il 4:3 come luogo di composizione e di 'ricomposizione' di un corpo. Perché al centro di Son of Saul c'è il cadavere di un ragazzino che un padre vuole sottrarre alla voracità dei forni crematori, un corpo morto tra milioni di corpi morti che Nemes lascia sullo sfondo sfocato e infuocato dalla furia nazista. Le proporzioni del formato, che limitano lo sguardo e fugano la spettacolarità delle immagini, rimarcano il punto di vista del protagonista. Ma Saul è anche il bersaglio per il fucile delle SS e per la macchina da presa. Sulla giacca che indossa è verniciata una ics rossa che lo rende immediatamente distinguibile e vulnerabile dentro l'inferno della soluzione finale. A un passo dalla rivolta armata messa in atto dai sonderkommando ad Auschwitz nel 1944, la macchina da presa converge sullo sguardo di Saul che ha scelto un'altra forma di resistenza: preservare l'integrità e la sacralità del corpo di suo figlio. L'ossessione con cui Saul persegue quella volontà lo tiene ostinatamente in vita e colma istericamente il trauma di cui è stato complice obbligato e incolpevole. Alle cremazioni sommarie, indifferenti alla liturgia e al commiato, contrappone un gesto umano che lo conduce attraverso una Babele concentrazionaria in cui uomini e donne, ridotti a sofferenza e bisogno, sopravvivono e muoiono per un sì o per un no. In un clima di isteria e assuefazione collettiva, che il regista restituisce con la sfocatura, emerge Saul che perso a se stesso non ha ancora perso tutto.
Dal fondo in cui giacciono uomini ridotti a 'pezzi' dalla fabbrica della morte, Nemes separa e mette a fuoco Saul, ricostruendo con lui e attraverso i suoi spostamenti all'interno del campo un luogo al di fuori di ogni senso di affinità umana. È l'assuefazione a regnare davanti alle porte delle camere a gas, un meccanismo naturale di protezione che non fa più caso all'orrore che resta fuori campo e delegato ai suoni, ai rumori, alle parole, agli ordini urlati, alla paura muta, alle preghiere, ai canti sacri. Lo spettatore guarda soltanto l'oggetto della ricerca del protagonista, ricerca che scandisce il ritmo visuale del film, reso instabile e organico dalla pellicola. Sono i frammenti raccolti dal suo sguardo che permettono la ricostruzione della visione e di un'idea fissa che guadagna al film e alla vita di Saul un senso umano, arcaico e sacro. Dentro un formato saturo del meglio e del peggio dell'essere umano, dentro un formato che riduce il movimento e isola una personale ricerca verso una vita che si vorrebbe ancora e disperatamente ingrandita, si svolge la sfida di László Nemes.
Consapevole dell'impossibilità di dire qualcosa di definitivo sull'argomento, l'autore ha coscienza dei vuoti necessari e dei pieni superflui, s'impone dogmi etici ed estetici e prova a resistere dentro un quadro che qualche volta tracima, aprendo ai lati sui predatori, sulla visione piena di luoghi e azioni, sul realismo insopportabile. Negativo de La vita è bella, Son of Saul è un incubo a occhi aperti in cui un padre ha perso la battaglia con la vita ma vuole vincere quella con la morte, ricomponendola con l'assistenza di un rabbino. La follia nazista non può essere nascosta a quel figlio (probabilmente) mai avuto ma così necessario a riparare il senso di colpa indotto dai carnefici alle loro vittime. Un figlio che accende la sua unica intenzione e il suo ultimo sorriso.

martedì 26 aprile 2016

Milonga: ARCI Bellezza

Molta voglia di ballare dopo 10 giorni  di stop.
Serata purtroppo atipica, con meno donne che uomini, e quindi molta concorrenza. Ne conseguono molte tande fermo a guardare.
Quelle ballate peraltro di buon livello,  specie una con una nuova Giovanna.
Andato a casa presto piuttosto deluso.

Cinema: Un ultimo tango

Bello bello, con una grande Maria Nieves





Marzia Gandolfi      *  *  *  1/2  -

Per una coppia l'apprendistato del tango non è meno difficile di quello della vita (in) comune. Troppo vicini, troppo lontani, troppo simbiotici, troppo indipendenti, l'uno fa troppo, l'altro troppo poco, l'uno occupa troppo spazio e invade quello del partner, l'altro fa troppi passi indietro e si lascia portare. I due sono in concorrenza permanente. L'armonia è allora il traguardo da raggiungere e il risultato di un lungo lavoro per tutti ma non per loro, María Nieves e Juan Carlos Copes, incontrati a diciassette anni in una milonga di Buenos Aires e allacciati nel tango per sempre. Perché anche adesso che non si vedono e nemmeno si parlano più, María e Carlos non smettono di essere un miracolo scenico che trama passi e figure fino a farsi espressione di lirismo universale. 
Prodotto da Wim Wenders e diretto da German Kral, Un ultimo tango è la testimonianza di un genere musicale, di un ballo, di un uomo e una donna, di una poetica nutrita di sentimenti eterni come la malinconia, la nostalgia, la sensualità, la passione, la rabbia. "Pensiero triste messo in musica" scriveva Borges, il tango è la linea musicale su cui scivola la storia di una coppia che ha danzato con la stessa intensità con cui ha vissuto, che ha contagiato il mondo con un ballo popolare a cui insieme hanno dato dignità di palcoscenico. 
Intervistati a turno sulla materia che conoscono e praticano meglio, melting pot di tradizioni americane, africane e europee che si incontrano nel 1880 nelle periferie delle capitali di La Plata, Buenos Aires e Montevideo, María e Carlos ripercorrono vita e carriera in primo piano, inframezzati con la 'ricostruzione' coreografica della loro storia, immagini di repertorio e discussioni sulla messa in scena. 
Sbilanciato significativamente dalla parte di María, sedotta, accompagnata e abbandonata da Carlos che sposa a Las Vegas nel 1965, Un ultimo tango è metafora della vita e delle sue imprevedibili e infinite combinazioni. Orfana di padre e bimba indigente nell'Argentina degli anni Quaranta, María impara il tango con un manico di scopa e le note 'suonate' alla radio. A seguito della sorella, incontra Carlos nel 1947, lui è ancora un principiante impacciato ma lei ne registra i lineamenti con un'occhiata esplicita e udibile come lo scatto di una macchina fotografica. Per Carlos sarà lo stesso. Passa un anno, un anno di pratica e sale fumose, prima che María e Carlos si ritrovino per caso, danzino per azzardo e scoprano per sempre la sintonia perfetta. Da quel momento si innamorano, si scontrano, si lasciano, si feriscono, si rincorrono e si ritrovano proprio come in un tango. Un tango che da copione si tinge di desiderio e gelosia mentre i loro corpi, nelle immagini d'archivio, e quelli dei loro doppi, nella rappresentazione, si compenetrano con prepotenza e morbidezza. 
L'afinidad tra María e Carlos come una trance ipnotica incanta lo spettatore travolto dai ritmi languidi e scanditi del tango e da una vicenda sentimentale nata nell'Argentina di Perón, spezzata dagli anni della dittatura militare, (ri)sperimentata nell'America di Reagan ma sempre ritrovata sulla scena e nel nome del tango. Danzare insieme li rende folli ma María e Carlos non sanno fare altro, non possono fare a meno l'uno dell'altra, non riescono a trovare nessuno che possa rimpiazzare l'uno o l'altra. "Se con le altre danzo", ripete Carlos con riguardo, "con lei posso brillare". Sopravvissuti all'odio e ai tradimenti della Storia, la coppia non regge al tourbillon emozionale e privato: Carlos si risposa, diventa padre e congeda la partner di una vita, precipitandola nella depressione da cui riemergerà trovando tardi la sua autonomia creativa. Storia d'amore sincopata e ancorata a un Paese, il film-documentario di Kral, che combina finzione e frammenti di realtà, svolge con tensione e languore l'avventura artistica ed esistenziale della coppia faro del tango argentino. Cerimonia misteriosa che si presta più di altri balli ad essere rappresentata al cinema, il tango è soprattutto una danza di sentimenti. Lontana dall'essere movimento neutro e accademico, riflette uno stato emozionale dietro gli abbracci, le sospensioni di peso, gli slanci, gli abbandoni, gli agganci sui fianchi. Impossibile resistere, perché resistergli. María e Carlos si concedono un ultimo tango che procedendo in senso antiorario, risale la pista, due vite, due opposte individualità compatibili e inconciliabili ma irriducibilmente avvinte. 

giovedì 21 aprile 2016

Mostra: Joan Mirò - la forza della materia

A me Mirò piaceva da prima, quindi ho apprezzato molto il percorso.
L'esperienza in realtà virtuale in cui si vola nel quadro è fantastica...


Un’ampia selezione di opere realizzate tra il 1931 e il 1981 dal grande artista catalano.
Il lavoro di Joan Miró, una delle personalità più illustri della storia dell'arte moderna, è intimamente legato al surrealismo e alle influenze che artisti e poeti di questa corrente esercitarono su di lui negli anni venti e trenta. È attraverso di loro che Miró sperimenta l'esigenza di una fusione tra pittura e poesia, sottomettendo la sua opera a un processo di semplificazione della realtà che rimanda all'arte primitiva, al tempo stesso punto di riferimento per l'impostazione di un nuovo vocabolario di simboli e strumento utile a raggiungere una nuova percezione della cultura materiale.

La retrospettiva intende porre l'attenzione su questo ultimo aspetto, mostrando attraverso un'ampia selezione di opere realizzate tra il 1931 e il 1981, l'importanza che l'artista ha sempre conferito alla materia, non solo come strumento utile ad apprendere nuove tecniche ma anche e soprattutto come entità fine a se stessa.

Attraverso la sperimentazione di materiali eterodossi e procedure innovative, l'artista mira a infrangere le regole così da potersi spingersi fino alle fonti più pure dell'arte.

domenica 17 aprile 2016

MDW 2016: Nilufar Depot

Unica esposizione vista del Fuori Salone. quest'anno non ero ispirato, Ma questa, consigliatissima. è valsa per tutte. Un deposito industriale trasformato in esposizione di mobili vintage. Bellissima. Ho amato particolarmente i tavolini.












venerdì 15 aprile 2016

Milonga: Epoca Tango + semifinale campionato metropolitano tango milano

Volevo vedere come era un campionato di tango e devo dire che è una bella esperienza. Si vede e si impara. Peccato solo che le coppie fossero sempre un po le stesse, ma era solo la prima edizione.
Dopo la gara Milonga tradizionale, ma devo dire che per partecipazione, vecchie amicizie e nuove ballerine  é stata una delle serate migliori dell'anno. Mi sono veramente divertito  e sono tornato a casa veramente stanco ma felice.
Purtroppo non so i nomi delle signore con cui ho ballato (Sonia, Simona e Giovanna a parte) ma spero di ritrovarle.



giovedì 14 aprile 2016

Mostre: Carsten Holler - Doubt all'Hangar Bicocca


Un luna park lo definirei. Con qualche installazione interessante e qualcuna divertente, ma forse un pò troppo pretenziosa..







domenica 10 aprile 2016

Mostra: W. WOMEN IN ITALIAN DESIGN

Mostra veramente molto interessante per la varietà di soggetti esposti, con una prima sala che commuoveva. Il genio delle donne si riconferma...

w-women-in-italian-design








venerdì 8 aprile 2016

Milonga: Che Bailarin a.k.a. da Zotto

Serata deludente, la prima da tempo. Non c'era atmosfera, non c'erano ballerine che mi ispiravano, forse ero stanco e basta. Andato via veramente insoddisfatto..

mercoledì 6 aprile 2016

Teatro: la regina Dada

Spettacolo che si fa apprezzare solo per la parte pianistica di Bollani e per la scenografia.
Il resto, testo e recitazione, mi hanno lasciato piuttosto perplesso..





venerdì 1 aprile 2016

Teatro: Prova

Testo molto particolare, in pratica 4 monologhi successivi dei 4 protagonisti che non dialogano mai, molto intenso e direi ben recitato. I temi di amore, morte, amicizia, godimento sono tutti sviscerati.


Prova è la versione italiana di Répétition, scritto e diretto da Pascal Rambert, di cui sono protagonisti Emmanuelle Béart, Audrey Bonnet, Stanislas Nordey e Denis Podalydès e che ha debuttato lo scorso mese di dicembre al parigino Festival d’Automne e sarà presentato in esclusiva assoluta italiana a Vie Festival nell’autunno 2016. Di Rambert, ERT ha recentemente prodotto la versione italiana di Clôture de l’amour, nel quale Anna Della Rosa e Luca Lazzareschi hanno magistralmente interpretato la cronaca sublime di una separazione annunciata.
Questo nuovo lavoro non è più incentrato sul tema dell’amore e della separazione ma riguarda la scrittura e l’atto creativo. E, al centro, l’essere umano, l’artista, confusi, messi a nudo. In Prova ritroviamo dunque Anna Della Rosa e Luca Lazzareschi insieme a Laura Marinoni e Giovanni Franzoni: in una sala prove, due attrici, uno scrittore e un regista assistono all’implosione della loro unione artistica. “Ho visto più verità in alcuni momenti di teatro, danza e letteratura che nella vita stessa. Ho cercato di mostrare questo passaggio costante che caratterizza il mestiere dell’artista tra ciò che attingiamo dalla vita, la sua trasformazione in materia immaginaria e questo flusso continuo che è l’oggetto del nostro parlare. Per me la vita e la finzione sono sempre legate l’una all’altra. Non si interrompono mai. Questo flusso ininterrotto è uno dei possibili argomenti dello spettacolo”.

Durata: due ore senza intervallo