mercoledì 31 dicembre 2014

Cinema: Lo Hobbit - La battaglia delle 5 armate


Nell'ultimo capitolo de Lo Hobbit forte unità narrativa con gli altri film e ritmo sincopato
Gabriele Niola

La battaglia delle cinque armate Smaug ha deciso di scatenarsi dando fuoco a Pontelagolungo e ai suoi abitanti. Mentre i nani, inermi, guardano la scena dalla montagna, in un delirio di fughe disperate solo Bard decide di combattere il drago riuscendo in extremis a penetrare l'unico punto scoperto della sua dura scorza con una sola grande freccia. Sconfitta la creatura si apre uno scenario ancora più truce: la montagna è libera e il tesoro dei nani incustodito, la notizia si sparge in fretta e, vista la bramosia di Thorin nel tenere l'oro per sè, alle porte si prepara un conflitto tra l'esercito degli elfi e degli uomini (desiderosi di vedere rispettata la promessa fattagli dal nano ora "re sotto la montagna"), quello dei nani accorsi a difendere il loro simile e il grande nemico di Thorin, desideroso d'oro e vendetta. In mezzo a tutto ciò Bilbo ha rubato la bramata Arkengemma e deve decidere che farne. Parte con un enjambement narrativo il terzo ed ultimo capitolo di Lo Hobbit, riprendendo per una breve introduzione (finita prima ancora della comparsa del titolo) gli eventi durante i quali Peter Jackson era andato a capo al termine del capitolo precedente, ovvero la furia del drago Smaug. È una delle trovate di adattamento più efficaci del film, gli dona da subito un ritmo sincopato e conferma la forte unità narrativa che questa serie di tre film vuole avere. Tuttavia da quel momento in poi il resto di La battaglia delle cinque armate è molto fedele al suo titolo e preferisce l'estesa e spesso noiosa rappresentazione dei conflitti tra diversi eserciti ai molti altri spunti che la parte terminale del libro originale offriva. Dopo che per 5 film abbiamo visto diversi re all'opera e diversi umani sudare per guadagnare il proprio ritorno a quella carica (Aragorn prima e Bard qui), ora Peter Jackson vuole mettere sotto i riflettori proprio i conflitti di re e condottieri (veri protagonisti della storia), divisi tra chi insegue ossessioni personali e chi pensa al benessere del proprio popolo. Se già in La desolazione di Smaug era possibile notare quanto la leggerezza del romanzo da cui tutto parte venisse appesantita per avvicinare questa trilogia a quell'altra, tratta dal più noto volumone di Tolkien, in questo la trasformazione è quasi completa, così anche i piccoli inserti di umorismo o le facezie più semplici, che dovrebbero segnare la differenza tra i due racconti, sembrano forzate, meccaniche e mal amalgamate con il resto. Nella volontà di creare più di un ponte narrativo con Il signore degli anelli questo film finale di Lo Hobbit introduce personaggi e tematiche, anticipa eventi e prepara alla grandezza degli scontri in un lungo ripetersi di nomi (sia di luoghi che di persone) e luccicar di sguardi. Nel chiudere il viaggio di Bilbo Baggins Peter Jackson sceglie infatti la grande epica, ne allarga il respiro e vi inserisce molte invenzioni (più che in qualsiasi altro film), all'insegna di una serie di conflitti titanici tra eterni nemici e grandi poteri, di storie d'amore molto convenzionali e sentimenti sbandierati. Il risultato purtroppo è che una serie di film che è stata in grado di cambiare nel corso degli anni 2000 molto di quello che si pensava dovessero essere i blockbuster, finisce con le più tipiche dichiarazioni d'amore smielate, domande retoriche e svelamenti banali. Rimane così schiacciato uno dei temi più presenti nell'opera tolkeniana che l'adattamento filmico di Il signore degli anelli rispettava molto, l'idea che le cose più piccole, gli elementi più trascurabili e le persone meno in vista possano essere le più importanti, che la storia la facciano più gli anelli di semplice fattura, cui nessuno dà importanza, o i piccoli uomini di cui tutti si prendono gioco che i grandi condottieri.

Meglio del secondo, anche se sembra di rivedere il Signore degli Anelli, per certi versi.


domenica 28 dicembre 2014

Mostra: La guerra che verrà non è la prima 1914 - 2014

"La guerra che verrà non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti. Fra i vinti la povera gente faceva la fame. Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente."
Bertolt Brecht
La mostra La guerra che verrà non è la prima. Grande guerra 1914-2014 realizzata con il Patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri - Struttura di missione per gli anniversari di interesse nazionale, in collaborazione con importanti istituzioni culturali nazionali, costituisce la colonna portante del grande progetto Mart/Grande guerra 1914-2014 che si sviluppa nelle tre sedi del Museo e si completa con un programma collaterale di eventi, incontri, convegni, appuntamenti.

L
a mostra è un progetto diretto da Cristiana Collu, a cura di Nicoletta Boschiero, Saretto Cincinelli, Gustavo Corni, Gabi Scardi, Camillo Zadra, in collaborazione con esperti di storia e arte contemporanea. Attraverso lo sviluppo di contributi complementari fra loro, l’esposizione si allontana dalla semplice riflessione sulla storia e offre uno sguardo più complesso sull’attualità del conflitto, ancora oggi al centro del dibattito contemporaneo. La Prima guerra mondiale, di cui ricorre il Centenario, tra gli eventi più drammatici e significativi della storia, rappresenta dunque il punto di partenza di un’indagine più ampia che attraversa il XX secolo e arriva ai conflitti dei nostri g iorni. Il Mart si misura con il più difficile, travagliato e scabroso dei temi, facendosi carico non solo del racconto della storia, ma anche dell’esposizione articolata di alcune delle verità che lo contraddistinguono. Questo progetto ha richiesto e richiede non solo oggettività e distanza ma partecipazione e chiarezza. Non basta non volere la guerra e desiderare la pace. Muovendo dalla celebre poesia di Bertolt Brecht, “La guerra che verrà non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti. Fra i vinti la povera gente faceva la fame. Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente”, il Museo costruisce una narrazione dalla quale scaturisce un intenso viaggio che affonda le sue radici nelle guerre di un secolo, ritrovandosi nella più tragica storia recente. La mostra sviluppa il tema adottando molteplici punti di vista e toccandone anche gli aspetti più sensibili, delicati e talvolta controversi. Il percorso espositivo lascia emergere l’evento come risultato di una composizione in cui l’arte si confronta con la storia, la politica e l’antropologia. Ricorrendo a una sorta di complesso montaggio tematico e temporale, l’esposizione evita di seguire un preciso filo cronologico, dimostrando – tramite inediti accostamenti e cortocircuiti semantici – come tutte le guerre siano uguali e, allo stesso tempo, come ogni guerra sia diversa. L’intento non è quello di inventariare i conflitti di ieri e di oggi, né quello di misconoscere le irriducibili differenze storiche, ma la volontà di mantenere aperta la ricerca e la riflessione in un luogo in cui ricordare non significhi ridurre un evento a qualcosa di pietrificato, archiviato e definitivamente sigillato in se stesso ma, all’opposto, riveli interpretazioni e riletture capaci di esprimerne tutta la complessità.
L’arte entra in contatto con la quotidianità, i capolavori delle avanguardie dialogano con la propaganda, la grammatica espositiva completa e rinnova il valore di documenti, reportage, testimonianze. Installazioni, disegni, incisioni, fotografie, dipinti, manifesti, cartoline, corrispondenze, diari condividono gli oltre tremila metri quadrati del piano superiore del Mart e si misurano con sperimentazioni artistiche più recenti, installazioni sonore, narrazioni cinematografiche: documentari originali, video e film. Esposti anche numerosi reperti bellici impiegati nella Prima guerra mondiale, il cui ritrovamento è il capitolo più recente di una vicenda ancora attuale, nella quale ogni oggetto racconta la propria storia. Il progetto allestitivo, realizzato dal designer catalano Martí Guixé, traduce le due anime della mostra, storica e contemporanea, costruendo un palinsesto che tiene insieme follia, disordine ritmo, luce e speranza. Alle espressioni della contemporaneità è affidato il compito di amalgamare e scandire il percorso e i tempi della visita. Ne scaturisce una visione trasversale che tiene conto dei punti di vista della storia, dell’arte e del pensiero contemporaneo che contestualizza il passato. Un racconto sulla guerra e della guerra. L’allestimento è realizzato senza soluzione di continuità, affinché il visitatore scelga autonomamente da quale ingresso cominciare il proprio percorso e come costruirlo, affrontando la mostra e il suo tema in totale libertà. Ciò risulta indispensabile in un’esposizione tanto complessa, che emoziona, turba, disturba ma allo stesso tempo concilia e mette l’essere umano in contatto con una delle sue componenti più viscerali e oscure. La guerra che verrà non è la prima è una mostra vertiginosa nella quale si sviluppano sottotesti tematici, focus narrativi e affondi mirati, una trama di linguaggi tra i quali spicca a più riprese, filo rosso tra i fili che la mostra intreccia, il Futurismo. L’esposizione presenta alcuni capolavori storici provenienti dalle collezioni del Mart fra i quali opere di Giacomo Balla, Anselmo Bucci, Fortunato Depero e Gino Severini. Una lunga serie di prestigiosi prestiti nazionali e internazionali provenienti da collezioni pubbliche e private e gallerie completa il progetto. Numerose, inoltre, le opere di artisti che hanno vissuto il dramma della Grande guerra, la lista comprende, oltre ai già citati maestri dell’avanguardia italiana, Max Beckmann, Marc Chagall, Albin Egger-Lienz, Adolf Helmberger, Osvaldo Licini, Arturo Martini, Pietro Morando, Mario Sironi ed è integrata dai lavori di registi dell’epoca come Filippo Butera, Segundo de Chomón, Abel Gance. la guerra che verrà non è la prima Tra gli artisti impegnati direttamente nel conflitto, un approfondimento è dedicato al fotografo cecoslovacco Josef Sudek. La guerra è raccontata non solo come esperienza vissuta in prima persona, ma anche come pensiero ricorrente nella ricerca di molti artisti tra cui Lida Abdul, Enrico Baj, Yael Bartana, Alberto Bregani, Alberto Burri, Alighiero Boetti, Pascal Convert, Gohar Dashti, Berlinde De Bruyckere, Paola De Pietri, Harun Farocki, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Alfredo Jaar, William Kentridge, Mateo Maté, Adi Nes, ORLAN, Sophie Ristelhueber, Thomas Ruff, Anri Sala, Artur Zmijewski. Vengono inoltre presentate le migliori produzioni di alcuni artisti inediti al pubblico italiano come la serie completa delle 15 xilografie di Sandow Birk che misurano oltre due metri e mezzo l’una. Birk narra la guerra in Iraq rifacendosi alle 18 xilografie del ciclo Les Grandes Misères de la guerre di Jacques Callot (1633) alle quali si ispirò anche Francisco Goya per la realizzazione dei famosi Desastres de la guerra (1810-1815) sulla Guerra d’indipendenza spagnola. La celebre installazione In Flanders Fields di Berlinde De Bruyckere viene presentata per la prima volta accanto alle fotografie storiche che l’hanno ispirata, provenienti dell’archivio fotografico del In Flanders Fields Museum di Ypres (Belgio), nel quale l’artista ha trascorso un periodo di residenza. Saranno inoltre esposti l’intera serie House beautiful: bringing the war home di Martha Rosler, una tra le più note riflessioni sul rapporto fra guerra e media; Atlantic Wall di Magdalena Jetelová, installazione fotografica sui bunker della Seconda guerra mondiale, ispirata ai testi del filosofo francese Paul Virilio e l’installazione Picnic o il buon soldato di Fabio Mauri con la quale l’artista aveva creato una sorta di natura morta utilizzando reperti originali e di uso comune del periodo bellico. Paolo Ventura, artista in residenza al Mart già ospite della Casa d’Arte Futurista Depero nel 2013, ha realizzato un progetto context specific dal titolo Un reggimento che va sottoterra. Infine, è straordinariamente esposto, per la prima volta dopo il recente restauro, Guerra-festa di Fortunato Depero, proveniente dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. In occasione della mostra al Mart sono stati restaurati preziosi documenti d’archivio, opere, manifesti e reperti della Prima guerra mondiale provenienti dal Museo dell’aeronautica Gianni Caproni di Trento, dal Museo Civico del Risorgimento di Bologna, dalla Soprintendenza per i beni architettonici e archeologici della Provincia Autonoma di Trento e dalla Soprintendenza per i beni storici, artistici e etnoantropologici per le province di Venezia, Belluno, Padova e Treviso – Collezione Salce. Il volume che accompagna il progetto interpreta il racconto espositivo attraverso i preziosi contributi di Massimo Recalcati, Rocco Ronchi, Marina Valcarenghi, Jean-Luc Nancy, Marcello Fois, Gustavo Corni, Diego Leoni, Fabrizio Rasera, Camillo Zadra, Saretto Cincinelli, Gabi Scardi, Marco Mondini, Paolo Pombeni, Franco Nicolis e gli approfondimenti di Serena Aldi, Nicoletta Boschiero, Veronica Caciolli, Selena Daly, Duccio Dogheria, Daniela Ferrari, Francesca Franco, Luca Gabrielli, Denis Isaia, Mariarosa Mariech, Marta Mazza, Luciana Senna, Alessandra Tiddia, Federico Zanoner.
La guerra che verrà non è la prima. Grande guerra 1914-2014 è un progetto del Mart in collaborazione con Ufficio Beni archeologici della Soprintendenza per i beni culturali della Provincia autonoma di Trento; Museo Storico Italiano della Guerra, Rovereto; Laboratorio di storia, Rovereto; Soprintendenza per i beni storici, artistici ed etnoantropologici per le province di Venezia, Belluno, Padova e Treviso; Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Trento; Servizio Emigrazione e Solidarietà internazionale della Provincia autonoma di Trento.


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sabato 27 dicembre 2014

Cinema: il ragazzo invisibile


Una scommessa coraggiosa e infinitamente più complessa di quanto la sua superficie children friendly lasci intuire
Paola Casella      *  *  *  1/2  -

Michele è un adolescente e vive a Trieste con la mamma Giovanna, poliziotta single ("Non zitella!") da quando il marito, anche lui poliziotto, è venuto a mancare. A scuola i bulletti della classe, Ivan e Brando, lo tiranneggiano e la ragazza di cui è innamorato, Stella, sembra non accorgersi di lui. Ma un giorno Michele scopre di avere un potere, anzi, un superpotere: quello di diventare invisibile. Sarà solo la prima di una serie di scoperte strabilianti che cambieranno la vita a lui e a tutti quelli che lo circondano.
Gabriele Salvatores compie un altro salto nel vuoto cimentandosi con un film di genere nel genere: una storia di supereroi all'interno di un film per ragazzi, filone supremamente (e inspiegabilmente) trascurato in Italia. Quello di Michele è un classico viaggio di formazione che pone al pubblico, snocciolandole una dopo l'altra all'interno di una narrazione fluida e coesa, le grandi domande di chi si affaccia all'età adulta (e che continuano a riguardare anche il mondo dei "grandi"). Chi siamo? Di chi possiamo fidarci? A chi dobbiamo dare ascolto? Di chi (o che cosa) siamo figli? La nostra famiglia di elezione coincide con quella biologica? Quali sono i nostri veri talenti e come possiamo usarli in modo consapevole?
Salvatores sceglie, con molta onestà artistica, di ricordarci che il suo film deve rimanere accessibile in primis ai giovanissimi, e dunque non disdegna spiegazioni didascaliche e sottolineature esplicite, rifiutando lo snobismo dell'autore adulto che strizza l'occhio ai suoi coetanei. Il ragazzo invisibile resta però fortemente autoriale nelle scelte estetiche e narrative, che rispettano la composizione grafica del fumetto e l'iperrealismo (magico) del racconto fantastico.
La scelta del potere dell'invisibilità è ricca di valenze metaforiche, soprattutto per il cinema che è per definizione racconto del visibile, e visto che l'adolescenza è in genere il periodo di minima autostima e massimo narcisismo, essere invisibili diventa contemporaneamente un'aspirazione e uno spauracchio. Salvatores sceglie di filmare l'assenza nel momento stesso in cui rivendica il suo (anti)eroe come presenza innanzitutto fisica, e non sottrae il suo protagonista all'ambiguità di questo rapporto di attrazione e repulsione verso il proprio "non essere".
Gli effetti speciali de Il ragazzo invisibile sono artigianali nel senso migliore del termine: niente di fantasmagorico o strabiliante, piuttosto un recupero della meraviglia e dell'incanto infantile, sempre profondamente radicati nella concretezza di una quotidianità riconoscibile. Anche il montaggio si tiene lontano dalla frenesia da action movie hollywoodiano, ancor più se legato all'immaginario fumettistico.
Il ragazzo invisibile lavora soprattutto sulla costruzione dei personaggi e sulla semina dei grandi quesiti esistenziali di cui sopra, sempre enunciati a misura di adolescente. La sceneggiatura, del trio Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi e Stefano Sardo, attinge a molti capisaldi del cinema di genere senza diventare imitativa, e le innumerevoli citazioni, spesso d'autore - da Gremlins a Ferro 3, da Lasciami entrare ad Hanna (complice anche la somiglianza di Noa Zatta, la giovane attrice che interpreta Stella, con Saoirse Ronan), da Salt a Il sesto senso, da Spider Man a X-Men, da L'alieno a Grosso guaio a Chinatown. Anche l'intervento produttivo è competente, con un product placement discreto e un giusto equilibrio fra attenzione alle esigenze commerciali e rispetto della vocazione autoriale di Salvatores.
Il ragazzo invisibile racconta un corpo adolescente in cambiamento come cartina di tornasole e motore dell'evoluzione di un'intera comunità, creando un sottile distinguo fra talento e potere, appoggiandosi ad un'architettura narrativa solida e ad un'estetica precisa, apparentemente semplice e invece assai sofisticata nella cura dei dettagli, nel posizionamento delle luci, nella costruzione delle inquadrature e nella scelta "fumettistica" dei punti di ripresa. Una scommessa vinta per una sfida coraggiosa e infinitamente più complessa di quanto la sua superficie children friendly lasci intuire.

Bello, sui temi dell'adolescenza. un film riuscito


Mostra: Light Time Tales

Joan Jonas
Light Time Tales / A cura di Andrea Lissoni

La mostra
Light Time Tales a cura di Andrea Lissoni è la prima grande mostra personale di Joan Jonas (New York, 1936) ospitata presso un’istituzione italiana, che riunisce, tra opere storiche e più recenti, dieci installazioni e dieci video monocanale, tra cui un nuovo video concepito appositamente per HangarBicocca. Tra le opere in mostra Reanimation, simbolo dell’evoluzione delle sperimentazioni di Joan Jonas, è punto di partenza dell’omonima performance in collaborazione con il musicista e compositore jazz Jason Moran che è stata presentata il 21 ottobre 2014. Joan Jonas è una delle più rispettate e riconosciute artiste viventi. Considerata la massima autorità in campo di storia e teoria della performance, si è affermata negli anni 60 e 70 grazie alla sua pionieristica pratica performativa e video. Il suo lavoro ha reinterpretato in modo assolutamente originale la relazione tra l’arte e le forme della narrazione, includendo nelle sue opere, accanto all’immagine video, alla scultura e alla performance, la presenza della parola come motore di immaginario.

Joan Jonas rappresenterà gli Stati Uniti alla 56° edizione della Biennale di Venezia, in apertura a maggio 2015, con una mostra presentata dal MIT List of Visual Arts Center. Attualmente è Professor Emerita presso il Massachusetts Institute of Technology (MIT) Program in Art, Culture and Technology di Boston, ed è autrice di testi di riferimento sul tema delle performing arts.Ha partecipato alle più importanti mostre collettive degli ultimi trent’anni, fra cui la Biennale di Venezia nel 2009 e varie edizioni di documenta di Kassel (1972, 1977, 1982, 1987, 2002, 2012).

Mostra francamente incomprensibile anche se la sensazione generale non è cosi negativa. Forse la presenza di Filo ha alterato il feeling

venerdì 26 dicembre 2014

Milonga: Che Bailarin

Molto casino ed un atmosfera diversa dal solito. io un po stanco ho ballato comunque abbastanza ma non benissimo

Cinema: Viviane



Ricostruzione esemplare di un'anomalia del diritto di famiglia israeliano, ritratto femminile di rara forza
Raffaella Giancristofaro      *  *  *  1/2  -

Nel tribunale religioso di una località israeliana non specificata si esamina la richiesta di divorzio di Viviane Amsalem, che da tre anni ha lasciato il domicilio coniugale per incompatibilità col marito Elisha e risiede nel frattempo presso parenti. Per la legge israeliana, Viviane è un'emarginata sociale in libertà vigilata: non può avere nuove relazioni né una nuova famiglia. Non presentandosi alle udienze, Elisha allunga di proposito i tempi ed esaspera Viviane, il suo avvocato, i rabbini. Il dovere delle autorità religiose è preservare la "pace domestica", riconciliare le parti in causa e ascoltare le testimonianze degli amici veri e presunti della coppia. La vicenda si trascina tra rinvii continui, per cinque anni, concludendosi dopo un estenuante testa a testa tra marito e moglie, in un progressivo smascheramento di prevaricazioni e formalismi che non coinvolge tutti i presenti in aula.
Terzo capitolo di una trilogia iniziata con To Take a Wife (2004) e proseguita con Seven Days (2008), Viviane parte dallo stesso assunto di Una separazione dell'iraniano Asghar Farhadi ma si afferma come dramma legale puro. I toni oscillano per lo più tra tragico e paradossale, ma c'è spazio anche per una strepitosa parentesi comica femminile. Ricostruzione esemplare di un'anomalia del diritto di famiglia israeliano, che ancora oggi discrimina la donna rispetto all'uomo, per dirla con i suoi autori, Viviane è anche «una metafora della condizione delle donne in generale che si considerano "imprigionate dalla legge"».
Non da ultimo è ritratto femminile di rara forza, con una protagonista (Ronit Elkabetz, qui anche sceneggiatrice e regista con il fratello Shlomi) che riaggiorna il mito di Antigone opponendo una ferma, pazientissima resistenza a una norma inattuale. La scelta registica caratterizzante è la soggettività dello sguardo: tranne il finale (non a caso), il punto di vista è quasi sempre quello dell'interlocutore di chi è inquadrato. Costruito com'è per lo più di primi piani e frequenti sguardi in macchina, Viviane persegue con coerenza l'obiettivo di essere soprattutto interpellazione. Con numerosi cartelli insiste sul frazionamento del tempo, per sottolineare l'inestimabile valore di un'esistenza libera, qui ripetutamente offesa da un'autorità cieca.
Nonostante la fissità data dall'unità di luogo, il pretesto e il contesto che opprimono la protagonista e il linguaggio strutturalmente iterativo e formale del rito, il film stupisce per finezza di scrittura, molteplicità di registri e immediatezza, grazie al lavoro dei registi sul primo piano, in omaggio al cinema delle origini. Alla Quinzaine di Cannes 2014.

Non il mio genere di film, troppo legal e teatrale

domenica 21 dicembre 2014

Sci: Sestriere


Con Matte e Filo.
Bella neve, pochissima gente, belle piste.
2h da Milano

venerdì 19 dicembre 2014

Balletto: Serata Ciaikovskij


Per il classico appuntamento natalizio, Frédéric Olivieri, direttore della Scuola di Ballo dell'Accademia Teatro alla Scala, ha scelto di rendere omaggio ad uno dei maggiori compositori dell'Ottocento, Pëtr Il'ič Čajkovskij.
Si inizia con il magnifico Adagio della Rosa, estratto da La bella addormentata di Marius Petipa per poi immergersi nelle atmosfere di Serenade, il primo balletto coreografato da George Balanchine al suo arrivo negli Stati Uniti. Si prosegue con un estratto da La bella addormentata di Mats Ek, intensa versione contemporanea del celebre balletto ambientata nel mondo della droga. Non può mancare per celebrare il Natale un estratto da Lo schiaccianoci, nella versione che Frédéric Olivieri ha creato per i suoi giovani allievi.

con gli allievi della Scuola di Ballo Accademia Teatro alla Scala
diretta da Frédéric Olivieri

Classico, Classico, ma cosi godibile, cosie leggero. Bellissimo. e bravi loro

giovedì 18 dicembre 2014

Mostra: Chagall e la Bibbia



La mostra offre la possibilità di ammirare 60 lavori che l’artista dedica al messaggio biblico. La forza creativa di Chagall ha un carattere esplosivo e si manifesta nella disseminazione di frammenti narrativi e simbolici che, nel loro insieme,  acquistano valore iconico. Egli fu affascinato sin dagli anni giovanili dalla Bibbia, da lui considerata come la più importante e affascinante fonte di poesia e di arte e si confrontò con questi temi per tutta la vita, sino alla realizzazione del ciclo sul Messaggio Biblico, negli anni Sessanta. I soggetti furono elaborati in varie occasioni, con tecniche diverse (acqueforti, oli, ceramiche, sculture....), di cui la mostra dà ragione. Fulcro dell’esposizione sono le 22 guaches preparatorie, inedite sino ad ora, che si caratterizzano per una freschezza e una immediatezza di segno e per un grande fascino E’ sorprendente come sia possibile cogliere nelle  guaches, soprattutto nell’intuizione dello spazio, la predilezione per scelte unidimensionali dell’artista che non impediscono, pur in assenza di intenzioni prospettiche, il raggiungimento di esiti quasi realistici in forza di una rappresentazione immaginifica e fortemente evocativa. Il Museo Diocesano propone tutto ciò all’interno di un allestimento straordinario, costituito da una grande arca che, realizzata dallo studio Morpurgo de Curtis ArchitettiAssociati, ripropone il tema biblico desunto dal libro dell’Esodo.

MUSEO DIOCESANO
MILANO

Corso di Porta Ticinese, 95
20123, Milano

Mostra piccina e molto tematica, in cui la passione di Chagall è "costretta" entro un tema. Interessante

venerdì 12 dicembre 2014

Cinema: il sale della terra


Un'esperienza estetica esemplare e potente, un'opera sullo splendore del mondo e sull'irragionevolezza umana che rischia di spegnerlo
Marzia Gandolfi      *  *  *  1/2  -

Magnificamente ispirato dalla potenza lirica della fotografia di Sebastião Salgado, Il sale della terra è un documentario monumentale, che traccia l'itinerario artistico e umano del fotografo brasiliano. Co-diretto da Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado, figlio dell'artista, Il sale della terra è un'esperienza estetica esemplare e potente, un'opera sullo splendore del mondo e sull'irragionevolezza umana che rischia di spegnerlo. Alternando la storia personale di Salgado con le riflessioni sul suo mestiere di fotografo, il documentario ha un respiro malickiano, intimo e cosmico insieme, è un oggetto fuori formato, una preghiera che dialoga con la carne, la natura e Dio.
Quella di Salgado è un'epopea fotografica degna del Fitzcarraldo herzoghiano, pronto a muovere le montagne col suo sogno 'lirico'. Viaggiatore irriducibile, Sebastião Salgado ha esplorato ventisei paesi e concentrato il mondo in immagini bianche e nere di una semplicità sublime e una sobrietà brutale. Interrogato dallo sguardo fuori campo di Wenders e accompagnato sul campo dal figlio, l'artista si racconta attraverso i reportages che hanno omaggiato la bellezza del pianeta e gli orrori che hanno oltraggiato quella dell'uomo. Fotografo umanista della miseria e della tribolazione umana, Salgado ha raccontato l'avidità di milioni di ricercatori d'oro brasiliani sprofondati nella più grande miniera a cielo aperto del mondo, ha denunciato i genocidi africani, ha immortalato i pozzi di petrolio incendiati in Medio Oriente, ha testimoniato i mestieri e il mondo industriale dismesso, ha perso la fede per gli uomini davanti ai cadaveri accatastati in Rwanda e 'ricomposti' nella perfezione formale e compositiva del suo lavoro. Un lavoro scritto con la luce e da ammirare in silenzio.
Nato nel 1944 ad Aimorés, nello stato di Minas Gerais, da cui parte ancora adolescente, spetta al figlio Juliano documentarne la persona attraverso foto e home movies, ricordi e compendi affettivi di incontri col padre, sempre altrove a dare vita (e luce) al suo sogno. Un sogno che per potersi incarnare deve confrontarsi appieno col reale. A Wenders concerne invece la riproduzione dei suoi scatti, che ritrovano energia e fiducia nella natura, le sue foreste vergini, le terre fredde, le altezze perenni. Il regista tedesco, straordinario 'ritrattista' di chi ammira (Tokyo-Ga, Buena Vista Social Club, Pina Bausch), converte in cinema le immagini fisse, scorre le visioni e la visione di un uomo dentro un mondo instabile. In una scala di grigi e afflizioni, nei chiaroscuri che impressionano il boccone crudo dell'esistere (l'esodo, la sofferenza e il calvario dei paesi sconvolti dalle guerre e dalle nuove schiavitù), Salgado racconta le storie della parte più nascosta del mondo e della società. Spogliate dalla distrazione del colore, le sue fotografie attestano la conoscenza precisa dei luoghi e la relazione di prossimità che l'artista intrattiene con gli altri, sono un mezzo, prima che un oggetto d'arte, per informare, provocare, emozionare. Foto che arrivano dentro alle cose perché nascono dall'osservazione, dalla testimonianza umana, da un fenomeno naturale.
Esperiti esteticamente l'oggetto artistico e l'intentio artistica di Salgado, Wenders rappresenta col suo cinema la 'forma' dell'idea di cui gli scatti sono portatori. Scatti radicali e icastici che penetrano le foreste tropicali dell'Amazzonia, del Congo, dell'Indonesia e della Nuova Guinea, attraversano i ghiacciai dell'Antartide e i deserti dell'Africa, scalano le montagne dell'America, del Cile e della Siberia. Un viaggio epico quello di Salgado che testimonia l'uomo e la natura, che non smette di percorrere il mondo e ci permette di approcciare fotograficamente le questioni del territorio, la maniera dell'uomo di creare o distruggere, le storie di sopraffazione scritte dall'economia, l'effetto delle nostre azioni sulla natura, intesa sempre come bene comune. Perché dopotutto la domanda che pone la fotografia di Salgado è sempre 'dove'? In quale luogo? E determinare il luogo è comprendere il senso della narrazione dell'altro.

un documentario. con le foto di Salgado e la sua storia, certo. Ma senza un vero pathos..

lunedì 8 dicembre 2014

Milonga: Biko con concerto Tango Sonos

Gran casino dovuto al concerto e tante facce nuove, quindi maggiori rischi..
Inizio male con un paio di tande ballate male, direi per consorso di colpa con le ballerine.
Meglio nel finale con la ragazza alta rossa allieva di Marina e con Marisa, anche se non al meglio

Divertito comunque

Mostra: Conrad ed il mare


La mostra è abbastanza una bufala, in quanto mostra 4 pezzi marinareschi e qualche quadro a supporto di un po di citazioni "marinaresche".
Si vede in poco tempo ma lascia poco, se non la voglia di leggere Conrad.

sabato 6 dicembre 2014

Cinema: Interstellar

Uno dei film più ambiziosi degli ultimi anni in cui una vivacità narrativa e un'originalità registica fortissime costringono lo spettatore al piacere della concentrazione


Un piaga sta uccidendo i raccolti della Terra, da diversi decenni l'umanità è in crisi da cibo e quasi tutti sono diventati agricoltori per supplire a queste esigenze. La scienza è ormai dimenticata e anche ai bambini viene insegnato che l'uomo non è mai andato sulla Luna, si trattava solo di propaganda. L'ex astronauta Cooper, mai andato nello spazio e costretto a diventare agricoltore, scopre grazie all'intuito della figlia che la NASA è ancora attiva in gran segreto, che il pianeta Terra non si salverà, che è comparso un warmhole vicino Saturno in grado di condurli in altre galassie e che qualcuno deve andare lì a cercare l'esito di tre diverse missioni partite anni fa. Forse una di quelle tre ha scoperto un pianeta buono per trasferire la razza umana e in quel caso è già pronto un piano di evacuazione. Andare e tornare è l'unica maniera che Cooper ha di dare un futuro ai propri figli.
Questa volta c'è 2001: Odissea nello spazio nel mirino di Christopher Nolan. Interstellar non fa mistero di volersi misurare in quel campo da gioco e lo dice più volte con le immagini in quelle che sarebbe riduttivo chiamare citazioni ma sembrano più dichiarazioni d'intenti, come se il film di Kubrick fosse un genere a sè e Interstellar ne stesse solo rispettando le regole. La differenza tra i due sta però nel fatto che il regista di Inception e Memento è il massimo esempio di cineasta-ingegnere, un abile costruttore di ingranaggi dalla complessità impressionante che con invidiabile chiarezza corrono verso una risposta finale. Le domande poste dai suoi film non rimangono quasi mai appese (la trottola di Inception è una delle poche eccezioni in un film che comunque è pieno di risposte) e anche Interstellar, arrivato là dove Kubrick si fermava, avanza per fornire delle risposte che inevitabilmente risultano più povere di un indeterminato mistero. Per Nolan i misteri non sono nella fine del viaggio ma nelle situazioni che l'hanno messo in moto, sono da rintracciarsi nei molti errori e nelle molte menzogne dei personaggi (quasi tutti sbagliano qualcosa, quasi tutti ad un certo punto mentono a se stessi o agli altri) e nelle intuizioni sentimentali che hanno, tutto comunque parte di un puzzle perfetto.
Quel che ogni volta questo autore ci fa riscoprire è il piacere dell'audacia. Non c'è nessuno oggi capace di osare così tanto, nessuno così determinato a non voler essere come gli altri. Il futuro messo in scena da Interstellar non somiglia a nessuno dei molti già visti, è uno in cui una società di diverse decine di anni avanti a noi vive in un passato recentissimo (sembra la fine degli anni '90), apparentemente idilliaco ma intimamente disperato. L'uomo ha smesso di osare e, essendo a rischio estinzione, ha cominciato a conservare ma in questo ritorno alla vita bucolica, tutta cieli blu e campi coltivati, è collegato un profondo senso di sconfitta, tanto quanto uno di esaltazione è invece legato alle potenzialità della scienza e della tecnologia (mai nemica ma quasi più amica ed empatica dei propri simili), un assunto che già da solo ribalta i luoghi comuni del cinema per ambire ad un senso di meraviglia ed avventura che non siano figli solo dell'eroismo individuale del cinema americano (che comunque non manca) ma della semplicità spielberghiana, quella capacità invidiabile di suscitare i sentimenti più basilari quali meraviglia, desiderio e stupore.
In maniera non diversa è audace la tecnica con cui il regista, già da Inception, mostra di avere un'idea propria dell'uso narrativo del montaggio parallelo, lavorando sulla suspense tra due linee di trama nello stesso momento (quella dell'astronauta Cooper e della figlia Murph o in certi casi quelle degli eventi che stanno accadendo contemporaneamente ai diversi astronauti) o come intenda il tempo. In quasi ogni suo film Nolan ha dimostrato che il cinema può raccontare storie intrecciandone la trama a partire dalla sovrapposizione di temporalità diverse, trovando così percorsi nuovi anche per parabole canoniche. In Interstellar il tempo degli astronauti non è quello sulla Terra, i loro eventi si svolgono in momenti differenti ma lo stesso comunicano di continuo e in maniere sempre nuove, rinfrescando espedienti di suspense ormai usurati. È parte del fascino da puzzle dei film di Nolan ma più in grande è anche la dimostrazione di una vivacità narrativa e un'originalità registica fortissime che impongono un passo diverso ai suoi film e costringono lo spettatore al piacere della concentrazione. I tempi del film seguono un ritmo tutto proprio, con uno stacco vengono saltati diversi mesi, piazzando ellissi là dove altri avrebbero indugiato (gli astronauti non si preparano? Cosa succede tra l'accettazione della missione e la partenza?) e in altri casi vengono allungati a dismisura momenti su cui altri avrebbero sorvolato.

Che tutto questo accada in un kolossal hollywoodiano è forse la sorpresa più grande che il pavido cinema di questi anni, contento solo delle proprie sicurezze, poteva regalarci.

interessante l'articolo di Wired sul film

Film particolare, una fantascienza che contiene tanti film, da un regista che mi piace molto.
Tre ore passano in fretta

venerdì 5 dicembre 2014

fotografia: Walter Bonatti, fotografie dai grandi spazi


Nel volume edito da Contrasto e GAmm Giunti, come in mostra, le immagini di Walter Bonatti compongono un lungo, unico diario di viaggio dove, in una sequenza non cronologica ma certo non casuale, si intrecciano visioni e ricordi legate alla figura del grande esploratore e alpinista. Le fotografie sono accompagnate da brevi note dello stesso autore, parole tratte dai suoi molti testi: da quelli apparsi sulla rivista Epoca negli anni dal 1965 al 1978, alle memorie dei suoi libri, ai resoconti delle conferenze tenute negli ultimi anni. Si tratta di notazioni con cui Bonatti illustrava il senso e il valore di ogni immagine e, insieme, il senso e il valore unico di ognuna delle sue tante avventure. -

Mostra bellissima, con stupende foto scattate in luoghi grandiosi.. uno spettacolo