mercoledì 30 dicembre 2015

Mostra: Sguardo di donna - Venezia


La mostra in se è abbastanza interessante, con delle eccellenze ma anche molte altre fotografe su cui rimango perplesso. 
Ma cosa migliore è per me per altro la "mise en scene"  affidata ad Antonio Marras: ogni piano una scenografia diversa, tutte di grande impatto.


SGUARDO DI DONNA
DA DIANE ARBUS A LETIZIA BATTAGLIA LA PASSIONE E IL CORAGGIO
11.09.2015>10.01.2016

Diane Arbus, Martina Bacigalupo, Yael Bartana, Letizia Battaglia, Margaret Bourke-White, Sophie Calle, Lisetta Carmi, Tacita Dean, Lucinda Devlin, Donna Ferrato, Giorgia Fiorio, Nan Goldin, Roni Horn, Zanele Muholi, Shirin Neshat, Yoko Ono, Catherine Opie, Bettina Rheims, Tracey Rose, Martha Rosler, Chiara Samugheo, Alessandra Sanguinetti, Sam Taylor-Johnson, Donata Wenders, Yelena Yemchuk

Tutti i giorni dalle 10 alle 19, chiuso martedì
La mostra rimarrà aperta sabato 26 dicembre, giovedì 31 dicembre, venerdì 1 gennaio (dalle ore 14.00), martedì 5 gennaio, mercoledì 6 gennaio. Chiusa venerdì 25 dicembre.

Francesca Alfano Miglietti, meglio nota come FAM, è teorico e critico d’arte, docente di Teorie e Metodologie del Contemporaneo all’Accademia di Belle Arti di Brera, Milano. La sua ricerca è incentrata su: il corpo e le sue modificazioni, il rapporto tra visibile e invisibile, contaminazioni di linguaggi. Tra le riviste che ha ideato e diretto, Intervallo/Incidenti e VIRUS Mutations. Commissario alla Biennale Arti Visive di Venezia 1993, e Premio Luigi Carluccio alla Critica d’Arte 1990. L’ultima mostra a sua cura è “FABIO MAURI - The End” a Palazzo Reale di Milano.

Antonio Marras disegna e raccoglie sguardi e frammenti per quelle che saranno poi le sue opere, un modo di tracciare mappe e segnare territori con l’idea del viaggio, che definisce confini e forme del contemporaneo. Suo l’allestimento al Mart di Rovereto della mostra di Lea Vergine Un altro tempo. Nel 2012 è, insieme a Lucia Pescador, protagonista della mostra Vedetti, credetti, a cura di Francesca Alfano Miglietti.






domenica 27 dicembre 2015

Mostra: Wildt, l'ultimo simbolista


La GAM Galleria d’Arte Moderna prosegue con la mostra “Adolfo Wildt (1868-1931). L’ultimo simbolista” il percorso di valorizzazione dei nuclei più significativi delle sue collezioni scultoree. 
Dal 27 novembre al 14 febbraio 2016, la mostra – realizzata con la straordinaria collaborazione dei Musées d’Orsay et de l’Orangerie di Parigi - presenta un percorso dedicato alla ricerca dello scultore milanese sulla resa plastica e materica attraverso 55 opere in gesso, marmo, bronzo, accompagnate da una serie di disegni originali e alcune opere a confronto: oltre alla Vestale di Antonio Canova,  opere di Fausto Melotti, Lucio Fontana e Arrigo Minerbi.
La mostra intende porsi al centro di un percorso storico-artistico allargato alla città di Milano, che valorizza  tutte le testimonianze wildtiane ancora esistenti attraverso un itinerario tematico diffuso, con visite guidate realizzate in collaborazione con il Touring Club Italiano e appuntamenti di approfondimento condivisi anche con il FAI, Fondo Ambiente Italiano.

sabato 26 dicembre 2015

Cinema: il ponte delle spie

bel film, molto spielberghiano. Bravissimo Tom Hanks, bella l'ambientazione e la storia.


Un film di bruciante attualità, profondamente consapevole della sua funzione sociale
Marianna Cappi      *  *  *  *  -

Brooklyn, 1957. Rudolf Abel, pittore di ritratti e di paesaggi, viene arrestato con l'accusa di essere una spia sovietica. La democrazia impone che venga processato, nonostante il regime di guerra fredda ne faccia un nemico certo e terribile. Dovrà essere una processo breve, per ribadire i principi costituzionali americani, e la scelta dell'avvocato cade su James B. Donovan, che fino a quel momento si è occupato di assicurazioni. Mentre Donovan prende sul serio la difesa di Abel, attirandosi l'incomprensione se non il disprezzo di sua moglie, del giudice e dell'opinione pubblica intera, un aereo spia americano viene abbattuto dai sovietici e il tenente Francis Gary Powers viene fatto prigioniero in Russia. Si profila la possibilità di uno scambio e la CIA incarica Donovan stesso di gestire il delicatissimo negoziato.
L'intro hitchcockiano cede man mano il passo ad uno svolgimento sempre più letterario, dove il racconto è già leggenda e ancora incertissimo presente, come esemplifica l'immagine tombale del muro di Berlino; e dove il Donovan di Tom Hanks sembra rispondere al paradigma dell'everyman, cappotto cappello ombrello, se non fosse che, nel cinema di Spielberg più che mai, l'apparenza in qualche modo inganna.
Donovan è infatti qualcuno che incarna il mestiere che fa, lo onora come una "professione". Non si occupa di giustizia, è un giusto. Se a lui appare incredibile che il suo assistito non si preoccupi visibilmente del suo destino, all'altro appare inizialmente inverosimile che l'avvocato non voglia sapere la verità sulla sua colpevolezza o innocenza. "Servirebbe?" No. Per lui, che ha già fatto il proprio dovere in Normandia (salvando il soldato Ryan), ogni uomo è importante, ogni vita. Donovan non vede Abel innanzitutto come una spia, un russo, un nemico: sceglie di guardarlo come una persona. Man mano che lo conosce, gli darà un colore e una profondità, fors'anche quella dell'amicizia o dell'ammirazione, ma la scelta riguardo allo sguardo da adottare l'ha fatta in partenza. Come il regista.
Lo dice bene la prima inquadratura, nella quale Abel sta dipingendo il suo autoritratto, con l'ausilio di uno specchio. L'immagine nello specchio e quella sulla tela sono immagini della stessa persona, ma non sono identiche. La prima riflette una superficiale obiettività, la seconda reca traccia del tempo e dei pensieri intercorsi nelle ore del fare, e soprattutto reca traccia del suo autore. Non conta quello che di te penseranno gli altri, dirà Donovan al soldato Powers, ma "quello che sai tu". Consegnando all'avvocato il dono del finale, Abel gli sta dunque dicendo: "ti conosco, so chi sei", ed è questo il riconoscimento che più può soddisfare uno come Donovan; di quello pubblico, teletrasmesso, può fare anche a meno, può dormirci su.
In un'epoca come la nostra, di sospetti quotidiani, intercettazioni isteriche, identificazioni affrettate di un uomo col suo credo, il suo abito o la sua provenienza, Il ponte delle spie è un film di bruciante attualità, profondamente consapevole della dignità della professione artistica e della sua funzione sociale.

domenica 20 dicembre 2015

Mostra: Henri Cartier-Bresson e gli altri: I grandi fotografi e l’Italia

Mostra piuttosto deludente, come mi era stato detto. Fatto salvo Bresson, Capa e pochi altri, la qualità delle foto era mediocre, certamente inferiore a quella dei fotografi italiani protagonisti di INSIDE OUT



Il primo è Henri Cartier-Bresson. A lui, indiscusso maestro, e al suo viaggio in Italia, durato oltre trent’anni, è affidato il compito di introdurre l’itinerario fotografico che, assieme a quelli di altri 35 autori, contribuirà a restituirci l’”immagine” del nostro Paese visto con l’obiettivo dei più grandi fotografi internazionali.

Dall’11 novembre al 7 febbraio 2016, a Milano, Palazzo della Ragione Fotografia ospita “Henri Cartier-Bresson e gli altri – I Grandi fotografi e l’Italia”, la seconda tappa di un evento espositivo iniziato con Italia Inside Out.

Per raccontare come i grandi fotografi internazionali hanno visto l’Italia in un arco di tempo di quasi ottant’anni, la mostra è divisa in sette ampie aree tematiche, all’interno delle quali si sviluppa una storia indiretta della fotografia e dell’evoluzione dei suoi linguaggi.

Promossa e prodotta dal Comune di Milano Cultura, Palazzo della Ragione, con Civita, Contrasto e GAmm Giunti e curata da Giovanna Calvenzi, la rassegna chiude il percorso dedicato all’Italia voluto nell’anno di Expo 2015 e iniziato lo scorso marzo, con la mostra dedicata ai fotografi italiani. Lo spazio espositivo del Palazzo della Ragione, interamente dedicato alla fotografia, inaugurato a giugno 2014 nel cuore di Milano, arricchisce il suo palinsesto con una selezione di imperdibili immagini.



“Dopo Italia Inside Out, la mostra  che nella primavera scorsa ha regalato al pubblico le immagini realizzate dai grandi fotografi italiani, apriamo ora, sempre a Palazzo della Ragione, la seconda parte di questo progetto che presenta lo sguardo, al tempo stesso incantato e attento, dei grandi fotografi internazionali sul nostro Paese. Affascinati dal suo paesaggio, dalla sua gente, dalla sua storia, gli artisti in mostra ci rivelano, a noi che lo abitiamo, lo stupore che il nostro Paese suscita all’estero, in culture e sensibilità diverse dalla nostra, costringendoci a riflettere sul valore del nostro patrimonio naturale, artistico, storico e sociale”, ha dichiarato l’Assessore alla Cultura Filippo Del Corno.Un progetto perfetto per ExpoinCittà, che ha saputo offrire ai milanesi e ai visitatori, in questi sei mesi, il meglio del talento creativo italiano e internazionale”.

Il lungo viaggio in Italia inizia con un autoritratto di Henri Cartier-Bresson del 1933: il suo sogno umanista di fermare il tempo, di cogliere il momento decisivo nel flusso in divenire della realtà influenzerà a lungo la fotografia di tutto il mondo e sarà adottato da generazioni di fotografi.

Dopo Cartier-Bresson, e il suo viaggio durato circa trent’anni, il reportage di Robert Capa al seguito delle truppe americane durante la Campagna d’Italia del 1943, segue l’elegante rilettura del mondo della fede affrontato da David Seymour e il fascino che un’Italia minore esercita su Cuchi White, ancora studentessa di fotografia. Poi la visione umanista si stempera nelle luci classiche del racconto di Herbert List o nella destabilizzazione della visione di William Klein che entra da protagonista nel provocatorio racconto di Roma del 1956. Infine Sebastião Salgado che, con la consueta magistrale capacità di rileggere la realtà degli uomini, racconta l’epopea degli ultimi pescatori di tonni in Sicilia.



Si passa poi alla fascinazione per la fotografia in bianco e nero nella quale la narrazione si allontana dal reportage ma conserva intatta la poesia della visione classica: è il viaggio di Claude Nori che ripercorre le strade dei ricordi sul litorale adriatico alla ricerca di radici familiari ma è anche la visione della capitale di Helmut Newton che in “72 ore a Roma” ricrea una passeggiata notturna nel centro monumentale della città.



Le nostre città d’arte e cultura diventano poiterreno di interpretazione e di sperimentazione dei molti linguaggi che la tecnologia contemporanea offre oggi alla fotografia. Alexey Titarenko racconta una Venezia magica, Abelardo Morell, ad esempio, utilizzando le tecniche del “foro stenopeico”, crea visioni nelle quali interni ed esterni si sommano, Gregory Crewdson riscopre la fotografia in bianco e nero per interpretare Cinecittà, Irene Kung invece ricrea un’atmosfera onirica per ritrarre i monumenti del passato e del presente di Milano.

A introdurre il quarto itinerario,affidato ad autori che utilizzano quello che per consuetudine viene definito “linguaggio documentario”, è Paul Strand, che con Cesare Zavattini ha realizzato una delle più straordinarie opere dedicate alla realtà contadina: Un Paese del 1953. Strand, attraverso ritratti, still life e paesaggi conserva la storia di un piccolo centro emiliano, Luzzara. A cinquant’anni di distanza ma con lo stesso intento Thomas Struth ritrae il centro storico di Milano e Joan Fontcuberta si dedica ai gabinetti delle curiosità dei Musei scientifici di Bologna e di Reggio Emilia.

Il Grand Tour continua toccando anche una fotografia più disturbante, quella dei disagi esistenziali e degli scempi architettonici:Art Kane, che progetta immagini-sandwich che raccontano la scomparsa di Venezia e di Michael Ackerman che racconta invece in una lunga sequenza un doloroso incontro napoletano.

Fanno da contraltare a queste immagini numerosi autori che rileggono il nostro Paese con sguardo positivo: Joel Meyerowitz racconta le luci magiche della Toscana e arricchisce le sue immagini con il contributo poetico di Maggie Barret, Steve McCurry, a Venezia, è affascinato dall’alchimia estetica che si crea tra le persone e l’ambiente e Martin Parr invece, sulla costiera Amalfitana, gioca con l’immagine dei turisti che si dedicano a ritrarre se stessi sullo sfondo di straordinari paesaggi.

Chiude idealmente il percorso espositivo la narrazione autobiografica: Nobuyoshi Araki, anche lui affascinato da Venezia, si fotografa con le maschere del carnevale e racconta in chiave soggettiva i suoi incontri. Sophie Zénon ripercorre la storia della sua famiglia, costretta a emigrare, affiancando i ritratti dei suoi nonni ai loro luoghi di provenienza e infine Elina Brotherus e i suoi autoritratti nel paesaggio che si ricollegano all’inizio del nostro itinerario allo stupefacente e modernissimo autoritratto di Henri Cartier-Bresson che ha dato il via a questo lungo viaggio.



In mostra fotografie di:
MICHAEL ACKERMAN, NOBUYOSHI ARAKI, JORDI BERNADÓ, ELINA BROTHERUS, ROBERT CAPA, HENRI CARTIER-BRESSON, GREGORY CREWDSON, JOHN DAVIES, JOAN FONTCUBERTA, HARRY GRUYAERT, ALEX HÜTTE, ART KANE, WILLIAM KLEIN, IRENE KUNG, HERBERT LIST, GUY MANDERY, IROYUKI MASUYAMA, STEVE MCCURRY, JOEL MEYEROWITZ, SARAH MOON, ABELARDO MORELL, HELMUT NEWTON, CLAUDE NORI, MARTIN PARR, , BERNARD PLOSSU, MARK POWER, SEBASTIÃO SALGADO, DAVID SEYMOUR, PAUL STRAND, THOMAS STRUTH, GEORGE TATGE, ALEXEY TITARENKO, HANS VAN DER MEER, CUCHI WHITE, JAY WOLKE, SOPHIE ZÉNON

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venerdì 18 dicembre 2015

Teatro: Puntila e il suo servo Matti

Satira sul capitalismo di cui talvolta ho perso il nesso, la piece è molto ben recitata e ben messa in scena. 


MR PÙNTILA E IL SUO SERVO MATTI
di Bertolt Brecht
traduzione di Ferdinando Bruni
regia e scene di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia
costumi Gianluca Falaschi
musiche originali di Paul Dessau, arrangiamenti di Matteo de Mojana
con Ferdinando Bruni, Luciano Scarpa, Ida Marinelli, Corinna Agustoni, Elena Russo Arman, Luca Toracca, Umberto Petranca, Nicola Stravalaci, Matteo De Mojana, Francesca Turrini, Francesco Baldi, Carolina Cametti
luci di Nando Frigerio
suono di Giuseppe Marzoli
produzione Teatro dell'Elfo
foto Laila Pozzo

orari prezzi e altro
Considerata una delle migliori commedie di Brecht, Pùntila e il suo servo Matti mette in scena una "variante" del dottor Jeckyll e Mister Hyde: il ricco possidente Pùntila da sobrio è un tiranno che vessa e sfrutta i suoi dipendenti e vuol dare in moglie sua figlia a un diplomatico inetto e a caccia di dote, mentre, quando è ubriaco diventa amico di tutti e vuol far sposare la giovane al suo autista Matti, che tratta su un piano di parità.
Sfortunatamente le sbronze passano sempre! E spetta proprio al tagliente Matti il compito di smontare le false promesse del padrone, in un rapporto che richiama i nobili precedenti delle coppie Don Chisciotte/Sancho Panza o Don Giovanni/Leporello e che rimanda alle dinamiche fra il comico e la spalla delle comiche.

Un'allegoria del capitalismo e dei suoi sorrisi da caimano dove Karl Marx incontra suo fratello Groucho. Una "commedia popolare", secondo la definizione dello stesso Brecht, che nella versione di Bruni e Frongia sarà anche molto musicale, grazie agli interventi live di Matteo de Mojana e a un'affiatata compagnia di dodici attori di diverse generazioni. Ferdinando Bruni è lo schizofrenico Pùntila, affiancato dal servo Matti di Luciano Scarpa e da Ida Marinelli, Corinna Agustoni, Elena Russo Arman e Luca Toracca. Con loro gli "elfi d'adozione" Umberto Petranca, Nicola Stravalaci, Carolina Cametti e i nuovi scritturati Francesca Turrini e Francesco Baldi.


lunedì 14 dicembre 2015

Milonga: Biko

148 persone. Tante ne ho contate al Biko stasera. Considerando che la pista sarà 20 x 6 con due colonne in mezzo, facile capire il casino che c'era. Difficile ballare, difficile invitare, difficile pure solo stare in piedi.
Ballare ho anche ballato, ma male io, talvolta male le ballerine (quante principianti...).
Scappato presto. Più passa il tempo più ho bisogno di milonghe tradizionali.


venerdì 11 dicembre 2015

Teatro: Newsies


Da anni non vedevo un musical, che pure mi piacciono molto: un pò la mancanza di adepti che mi accompagnino, un po che ho una preferenza per i musical americani che raramente vengono in Italia (o che ho già visto) morale sono andato poco. Per Newbies stava per succedere la stessa cosa (mancanza di compagnia) ma una serie di fortunate coincidenze mi ha portato in prima fila.
Al di la dello straniamento di vedere i protagonisti cosi da vicino, (ho una preferenza per la galleria, specie per i balletti) mi sono goduto pienamente questo bello spettacolo fresco, ben interpretato e con una bella storia.
I maschi la fanno da mattatori e sono anche i più validi interpreti. 
Belle le musiche e le canzoni. Unica pecca le traduzioni in cui i congiuntivi sono assenti e la dissonanza uh se si sente!

Il sito del Musical

martedì 8 dicembre 2015

Cinema: Heart of the Sea

Ammetto un po di prevenzione per un film su questo argomento. Ma di solito Ron Howard fai dei buoni film di avventura e quindi mi sono fidato.
Alla fine ho avuto l'impressione di qualcosa comunque di "sfocato" in tutto il film: non so se erano scelte di fotografia o cosa, ma non c'è stata quell'immedesimazione che sempre mi accompagna quando un film mi piace davvero.
Buono ma un po deludente.

Poster Heart of the Sea - Le origini di Moby Dick

Grazie a una struttura narrativa solida e quasi epica, Ron Howard indaga l'oceano di sentimenti che risiede nell'animo umano
Giancarlo Zappoli      *  *  *  1/2  -

Nell'inverno del 1820 la baleniera del New England "Essex", comandata dal capitano Polard spesso in contrasto con il primo ufficiale Chase, viene attaccata da una balena dalle dimensioni enormi. Pochi marinai si salvano e tra di loro Thomas Nickerson, che all'epoca era poco più di un bambino. Costui trent'anni dopo e con un'iniziale riluttanza accetta di raccontare l'esperienza vissuta allo scrittore Herman Melville. Sta per nascere uno dei capolavori della letteratura di tutti i tempi: "Moby Dick".
Ron Howard, come la stragrande maggioranza dei lettori del romanzo, non sapeva che alla base del lavoro di Melville ci fosse una storia realmente accaduta che lo scrittore Nathaniel Philbrick ha indagato nel libro "Il cuore dell'Oceano - Il naufragio della baleniera Essex", vincitore del National Book Award per la Saggistica. La possibilità di confrontarsi con una produzione tra le più complesse da lui mai affrontate si è coniugata con un tema che è centrale nella sua filmografia: la ricerca di se stessi attraverso le difficoltà da superare e lo scontro con qualcuno che rappresenta un ostacolo. 
Da Cinderella Man a Rush, passando per Frost/Nixon, Howard si è spesso sintonizzato su questa lunghezza d'onda ma Heart of the Sea gli ha offerto un'ulteriore possibilità. Il suo ruolo di narratore per il grande pubblico, senza però mai dimenticare la necessità del rispetto nei suoi confronti, trova nel personaggio di Melville il proprio doppio ideale. Herman come Ron si fa raccontare (a pagamento) una storia vera per poi intervenire sul suo intreccio con la propria creatività. Howard lo ha fatto molte volte nel corso della sua carriera (pensiamo ad esempio ad Apollo 13) quasi volesse alternare la fiction di pura invenzione con degli ancoraggi alla realtà. 
C'è il respiro della classicità cinematografica nel modo in cui riprende l'avventura che vede protagonisti degli esseri umani e un cetaceo che, come lui stesso afferma, non ha nulla de Lo squalo perché preferisce accostarlo a King Kong leggendo in esso il simbolo di una Natura primordiale risvegliata dall'essere umano. Non si dimentica però anche di sottolineare come la balena bianca, divenuta grazie a Melville un soggetto a cui attribuire innumerevoli interpretazioni simboliche, fosse, al pari dei suoi simili, oggetto di un preciso sfruttamento economico perché l'olio di balena è stato l'antesignano del petrolio.
Se nel '700 si stimava la presenza negli oceani di cetacei attorno al milione di unità alla fine del secolo successivo esse erano ridotte a circa un terzo. Howard però non è interessato a realizzare un film 'ecologista' quanto piuttosto ad indagare, grazie a una struttura narrativa solida e quasi epica, l'oceano di sentimenti che risiede nell'animo umano e che l'immensa coda della balena sembra voler scuotere per metterne a nudo i moti e solcarne gli abissi.

lunedì 7 dicembre 2015

Milonga: Epoca Sant'Ambroeus

Approfitto delle feste per ritornare alla Comuna. Speravo di trovare poca gente ed invece c'è il mondo. Un casino veramente forte, anche se tutto sommato più ordinato del solito (non di molto).
Ballato tanto, non sempre con soddisfazione, ma tanto. Forse una decina di tande. Un paio belle, un paio faticose, le altre medie.
Andato a casa con riluttanza dopo le due..

venerdì 4 dicembre 2015

Milonga: Che Bailarin

Da Zotto si può stare tranquilli di trovare una buona atmosfera, buona musica ed almeno qualche buona ballerina, Anche stasera non è diverso: un'ottima prima tanda, un'ottima ultima, alcune intermedie cosi cosi.
Tutte o quasi ballerine sconosciute. Non trovo più il vecchi gruppi, non so se per loro dissoluzione o per spostamento.

venerdì 20 novembre 2015

Cinema: Hunger Games - il canto della rivolta parte 2

Che dire: pur con tutti i suoi limiti ed un finale "alla Harry Potter", il film non è male. 


Si conclude la saga più importante dei nostri anni, capace di ribaltare il rapporto tra sessi e rappresentare le contraddizioni moderne: il miglior romanzo di formazione per le ragazze contemporanee
Gabriele Niola      *  *  *  *  -

La resistenza si sta facendo sotto. I distretti ribelli sono ormai tutti riuniti sotto un'unica bandiera, quella dei ribelli, e sta per iniziare la marcia verso Panem, prenderla equivale a destituire il regime. Katniss è l'arma numero uno della resistenza, non per le sue doti di stratega o per la sua abilità sul campo, ma per la sua immagine. Prima sfruttata come volto simbolo dell'intrattenimento e della distrazione di massa, ora è invece diventata il corpo della ribellione, l'unica a cui la massa dia ascolto, l'unica a cui tutti credano anche se la sua immagine è stata continuamente manipolata. Per questo motivo decide di abbandonare i ribelli (che non sono meglio del regime) e di cercare di trovare la sua vendetta e uccidere il presidente Snow da sola. Ora tutti la vogliono morta però: la vuole morta Peeta, che ha subito il lavaggio del cervello; la vuole morta il presidente Snow; la vuole morta la resistenza, perché diventerebbe un martire e unirebbe ancora di più le truppe.
Dopo quattro film si chiude la saga di Hunger Games e la chiusa è, una volta tanto, una conclusione impeccabile e rispettosa delle domande e dei problemi che tutta la saga ha sollevato rispetto alla realtà che vivono i suoi spettatori (in linea di massima compresi tra i 13 e i 30 anni). La storia di Katniss Everdeen rispecchia il miglior romanzo di formazione possibile per le ragazze contemporanee, un romanzo che le mette in guardia e le prepara al vero terreno di negoziazione dell'età contemporanea, quello dell'immagine.
Che tutta la saga sia un ribaltamento dell'action movie di fantascienza classico è evidente fin dall'inizio, dalla maniera in cui la protagonista non combatte sul terreno degli uomini ma anzi sposta il conflitto su dinamiche, idee e strumenti propri dell'universo delle ragazze. Il suo miglior aiutante è uno stilista; sono i suoi abiti a determinarne il successo; è la treccia che porta sempre il dettaglio che prima di tutti si diffonde tra il pubblico e la fa individuare come un nemico del potere. Infine qui sono i vestiti a salvarla anche fisicamente. Katniss combatte prima di tutto con la propria immagine e poi con le frecce, perché, dice Hunger Games, il corpo della donna è l'arma più potente e pericolosa, l'oggetto desiderato da tutti, a cui tutti vogliono dare un significato proprio. Katniss lotta per salvare il suo amore (Peeta, di fatto sempre in pericolo, sempre bisognoso di essere protetto o salvato da qualcosa) e per essere autonoma; che quest'autonomia passi per un percorso di liberazione dai "partiti", dalle "fazioni" e da qualsiasi aggregato ideologico è solo un segno dei tempi. In Il canto della rivolta - Parte II la resistenza non si rivela migliore del regime e non c'è alcun valore per il quale si batta la protagonista, se non per difendere il diritto di non essere usata.
Diretto con molta più concretezza rispetto ai precedenti due capitoli, quest'ultimo film rifiuta qualsiasi idea di eroe predestinato o di gloria: non ci sarà nessun finale epico per Katniss, anche questo in controtendenza con qualsiasi narrazione adolescenziale. Nella grande chiusa la protagonista si dimostrerà più nichilista che mai. 
È qui decisamente evidente come dietro questa saga ci sia molto più di quel che siamo abituati ad aspettarci dal cinema hollywoodiano di immenso incasso, dalle grandi saghe e dai film di intrattenimento. Nonostante le più consuete trovate finalizzate ad un'azione molto semplice e basilare (un filo di simil-morti viventi, un po' di scene grandiose ed esplosioni clamorose non si negano a nessuno con quei budget), in Il canto della rivolta - Parte II finalmente tornano a battere una testardaggine ed un'ostinazione arrogante nel portare avanti le proprie idee che non vedevamo dal primo film. La forza con cui si batte contro tutte le persone che vogliono impadronirsi della potenza dell'immagine del suo corpo è esemplare di un universo in cui l'immagine fissata (foto come video) diventa centrale nella costruzione dell'identità individuale. E in Hunger Games qualsiasi ripresa mente: non c'è video di repertorio o immagine filmata che i protagonisti guardano che non dica il contrario di quel che è accaduto realmente.
A contribuire a rendere questa saga un perfetto manuale di umanità di questi anni ovviamente è Jennifer Lawrence, molto più determinante di attori decisamente più navigati (Julianne Moore, Woody Harrelson o Philip Seymour-Hoffman). Il suo è un personaggio spinoso perché costantemente antipatico, brusco, scontroso e depresso, non ha gioia nè vuole piacere (ma piace, piace a tutti nel film e fuori dal film), eppure la Lawrence ha un'intima onestà sentimentale che colpisce. Quest'attrice in grado di mettere in mostra capacità impressionanti anche su testi molto semplici come quelli di Hunger Games rende complessa qualsiasi cosa. Si guardi solo la prima scena, in cui le viene controllata la gola dopo che la persona a cui più tiene ha tentato di strangolarla: senza parlare, con un'espressione sola e unicamente ritraendosi riesce a trasmettere una concreta impressione di paura indotta da un trauma in maniera personale, come se fosse la prima a farlo nella storia del cinema. Questo genere di complessità, spalmata per tutti i 4 film, fa sì che la saga possa compiere il salto definitivo e riesca a rendere umane e concrete tutte le sue idee.

sabato 14 novembre 2015

Concerto: Chiara Civello all'Unicredit Pavillon



Chiara Civello l'ho ascoltata lo scorso anno su Spotify. Era uscito il suo album "Canzoni" e ne avevamo parlato bene. Quindi proviamo ad ascoltarla dal vivo in questa nuova struttura molto piacevole.
Inizia con le sue canzoni e devo dire che non mi entusiasmano. Anche la voce non sembra quella dei dischi. Il concerto prende quota nella seconda parte, dove appunto riprende e reinterpreta le grandi canzoni italiane dell'ultimo mezzo secolo. Io la trovo brava, è personale, non imita modelli alti (Mina su tutte, che si è cimentata nello stesso repertorio). Un'ora e mezza di bella musica, da cui ci si fa cullare volentieri.



PS: più controlli del solito, in entrata ed in uscita..




Mostre: Gianni Piacentino

In una giornata grigia e triste per quanto successo a Parigi non si può rimanere in casa.
La scelta ricade sulla nuova mostra alla Fondazione Prada.
Ecco: una mostra in cui il contenitore vale più del contenuto. Fatemi spiegare: non è che le singole opere esposte siano brutte, anzi, hanno un estetica molto accattivante, aeronautica, cromatica, allungata come un elica o un telaio di motocicletta. Ma quello che vale, in questa mostra, è COME le opere siano messe nello spazio, come il pubblico si debba muovere intorno a loro, non potendo addirittura percorrere che gli spazi decisi dal curatore.
Ne risulta una mostra molto "estetica" (il che essendo da Prada non è che debba stupire) e che va goduta sala per sala senza addentrarsi nello specifico delle singole sale.








PS: Nota a parte per il pubblico che frequenta la mostra: quasi tutte donne, quasi tutte giovani, tutte molto stilose. Esteticamente adatte alla mostra. Per andare da Prada non ci si può vestire male.






giovedì 12 novembre 2015

Cinema: Suburra

Che film. Si rimane attaccati alla sedia dall'inizio alla fine. Film duro, vero, ottimamente recitato, che non fa sconti, asciutto.
Uno dei più bei film visti nell'anno, se non il migliore.
Il commento qui sotto, che riporto per completezza, non mi trova ovviamente del tutto d'accordo.


Suburra è ottimo cinema medio ma sceglie di rinunciare alla grandezza
Paola Casella      *  *  *  -  -

12 novembre 2011. Silvio Berlusconi rassegna le sue dimissioni da Presidente del Consiglio. La storia di Suburra, basato sul romanzo omonimo di Giancarlo De Cataldo e Carlo Bonini, comincia sette giorni prima, immaginando che proprio allora Papa Ratzinger prenda la storica decisione di abbandonare il ruolo di pontefice. Il film è dunque incorniciato da due abbandoni "paterni", è dedicato da Stefano Sollima al padre Sergio, e racconta l'assenza (o la defezione) delle figure maschili di riferimento nella società italiana, attraverso le avventure di un gruppo di uomini cui viene continuamente ripetuto di non essere all'altezza del proprio genitore.
C'è Filippo Malgradi, politico corrotto e dissipato, che passa la notte con due escort, di cui una minorenne, e si caccia in un ginepraio senza fine. C'è Sebastiano, organizzatore di feste vip abituato a fare il vaso di coccio fra vasi di ferro. C'è Numero 8, giovane boss della malavita di Ostia che sogna di trasformare il litorale romano in una Las Vegas, come Bugsy Siegel. C'è Manfredi Anacleti, capo di un clan di zingari che vorrebbe fare il salto nel crimine di serie A. E ci sono Sabrina, l'escort che fornisce la "carne fresca" a Malgradi, e Viola, la compagna tossica di Numero 8. I destini di tutti i personaggi sono destinati ad incrociarsi illuminando il legame che esiste da sempre (o almeno dai tempi della Suburra romana) fra criminalità e potere politico.
Dopo il coraggioso ACAB e la serie televisiva Gomorra, Sollima si cimenta con questo "romanzo criminale" cercando di dargli il respiro della lunga serialità, ma sacrificando nell'impresa molti snodi narrativi che sarebbero necessari per capire fino in fondo la trama: qui e là la sceneggiatura, firmata da Stefano Rulli e Sandro Petraglia oltre che da De Cataldo e Bonini, dimentica infatti di comunicare al pubblico dettagli importanti sul come, il quando e il perché avvengano determinati eventi e scambi di informazioni. A molti spettatori questo non importerà, presi come saranno dall'incalzante ritmo narrativo che Sollima imprime alle vicende e a i personaggi: la sua regia è impeccabile, energica, bizantina, fa leva su inquadrature calibrate al millimetro e sulla fotografia opulenta di Paolo Carnera. In questo senso Suburra è una goduria per gli occhi e avrà quel riscontro del pubblico che cerca incessantemente.
Azzeccato anche il cast, su cui giganteggia Pier Francesco Favino in un'interpretazione che ha mille sfumature, evidenti già dalla prima scena. Il lavoro che Favino opera sulla voce, sulla postura, su uno sguardo che passa dalla morte dell'anima alla virulenza dell'istinto vitale è da Actor's Studio (e da incetta di premi). Lo affiancano un solidissimo Claudio Amendola nel ruolo del Samurai, l'unico personaggio veramente adulto della storia (e non è una buona notizia, essendo il Samurai un ex componente della Banda della Magliana); Elio Germano, untuoso publicist senza spina dorsale; Alessandro Borghi, nitido e potente Numero 8; Giulia Elettra Gorietti, escort fragile e corrotta; Greta Scarano, tossica fedele e a suo modo coerente. Il pubblico si divertirà a capire a quale personaggio realmente esistitente ognuno dei personaggi fa riferimento niente affatto casuale (e anche l'Ama fa un cameo non accreditato).
Il tallone d'Achille di Suburra resta la storia, che mostra sì una conoscenza approfondita delle dinamiche politiche e del sottobosco del generone romano, ma sembra conoscere (o capire) molto meno bene il mondo della criminalità, fumettizzandone i modi e i caratteri. Se i politici di Suburra e la corte dei miracoli di nani e ballerine sono riconoscibili alla lettera, i criminali sembrano gaglioffi da cinema, il che risulta ancora più evidente nell'accostamento (quasi impossibile da evitare) fra il film di Sollima e Non essere cattivo di Claudio Caligari, girato proprio fra i piccoli malviventi di Ostia (e cointerpretato da Alessandro "Numero 8" Borghi). Quel che è più grave è che, in questa ricostruzione del momento in cui l'Italia si è trovata "sull'orlo del baratro", non vengono messi in evidenza i prodromi della crisi di oggi, col risultato di mostrare un sistema di potere superato senza indicare in quale nuovo assetto si sarebbe riconfigurato.
Suburra è ottimo cinema medio ma sceglie di rinunciare alla grandezza, dunque pur nella sua estrema piacevolezza (soprattutto estetica) non sposta in avanti l'arte cinematografica nel suo complesso, né accresce la nostra comprensione della società italiana contemporanea. Eppure Sollima avrebbe tutte le carte in regola per uscire dalla dimensione artigianale e prendere il volo, come ha già dimostrato in ACAB, attraverso quella cifra autoriale tutta sua: sporca, ambigua, scorretta come la vita, soprattutto in certi ambiti. La sua grandezza potenziale è visibile in alcuni scambi: quello fra il Samurai e Malgradi; fra il Samurai e sua madre; fra il Samurai e Numero 8. Non è un caso, essendo il Samurai l'unico padre (ancorché degenere) la cui "idea sopravvive nel cuore", in questa storia di figli bastardi i cui "i referenti non esistono più", dove tutti tradiscono tutti e nessuno crede più a niente.

domenica 8 novembre 2015

Mostre: Sopra il nudo cuore. Fotografie e Film di Antonia Pozzi

Antonia Pozzi mi era gia nota come poetessa e fotografa per una passione di mia moglie, ma non avevo direttamente mai visto niente.
Questa mostra, criticabile per l'allestimento (foto esposte due o tre volte, una voce che declamava le poesie della Pozzi troppo alta che disturbava la concentrazione) è interessante sia dal punto di vista fotografico che antropologico, mostrando come era una certa Italia negli anni '20. Borghi rurali ancora profondamente contadini, abitudini di vita ancora arcaiche, ma anche una classe sociale che giocava a tennis e girava il mondo. Accomagnati ad ogni passo dalla tristezza che prorompe fortissima dalle poesie di Antonia, sorridente nelle foto ma disperata dentro.



«Signorina, si calmi». Così nel 1935 il filosofo Antonio Banfi liquidava con tre parole scritte in calce al manoscritto, l’ardore poetico della sua brillante allieva Antonia Pozzi, che gli chiedeva un giudizio sui suoi versi. Proprio per quei versi bistrattati il nome della Pozzi dal 2 novembre 2015, pochi giorni fa, è scolpito nel Famedio tra i grandi milanesi, lì accanto al suo professore che l’aveva così brutalmente scoraggiata. Un bel risarcimento oggi, ma allora, per lei che dichiarava: “vivo della poesia come le vene vivono del sangue”, un colpo feroce alla propria identità di poeta.
Antonia Pozzi, ragazza milanese di buonissima famiglia e vasti interessi nella stagione buia del fascismo, si è suicidata nel 1938 a 26 anni sul prato di Chiaravalle, senza aver mai stampato un verso. Per quarant’anni, nonostante alcune pubblicazioni postume e gli elogi di Montale, la sua vicenda letteraria è passata sottotraccia. Fino agli anni Ottanta, quando è iniziata la sua riscoperta per merito di una suora, Onorina Dino. Al suo ordine, le Preziosine, la madre contessa di Antonia aveva donato la villa estiva di Pasturo, in Valsassina, con tutto l’archivio della poetessa che considerava quella casa il suo rifugio. Da allora ad oggi è stato un crescendo vorticoso tra ristampe, saggi e convegni, gruppi facebook a lei dedicati, traduzioni, film, spettacoli teatrali (qui il lavoro dell’attrice milanese Elisabetta Vergani). E la sua icona di poetessa tragica è servita persino a rilanciare il marketing territoriale: all’ingresso di Pasturo compaiono grandi cartelloni con il suo volto e i suoi versi che invitano alla visita. Ora la casa della Pozzi, di proprietà delle religiose, non ospita più l’archivio, acquisito dall’Università dell’Insubria. Antonia è nel cimitero del paese, dove ha voluto essere seppellita, meta di pellegrinaggio di fan devoti.
Antonia Pozzi, Madonna di Campiglio, dicembre 1937
Antonia Pozzi, Madonna di Campiglio, dicembre 1937
Prova regina di quanto il suo culto si sia esteso è il numero di film su di lei in circolazione: ben tre. La prima pellicola, “Poesia che mi guardi”, docufiction del 2009 della milanese Marina Spada, è ora in programmazione all’Oberdan di Milano nella rassegna cinematografica dedicata ai poeti, nell’ambito della mostra Sopra il nudo cuore, che raccoglie fotografie e filmati di e su Antonia Pozzi (a cura di Giovanna Calvenzi e Ludovica Pellegatta, fino al 6 gennaio). Una bella occasione per scoprire come gli altri vedevano Antonia, nelle foto di famiglia che la mostrano ragazza elegante, sorridente e un po’ impacciata sui campi da tennis, al mare o in mezzo ai suoi compagni di università Remo Cantoni e Vittorio Sereni. Ma soprattutto un altro modo, oltre ai versi, per capire come lei guardava le cose. Oltre alla poesia e alla filosofia le passioni della Pozzi erano la fotografia, 4000 gli scatti che ha lasciato, e l’alpinismo. La seguiamo così nelle sue passeggiate in montagna, innamorata della natura. Ma anche nel suo vagabondare armata di macchina fotografica nelle periferie milanesi, che negli ultimi mesi di vita frequentò assieme a Dino Formaggio, uno dei suoi amori non corrisposti, studente operaio e compagno di università poi divenuto uno dei più importanti filosofi italiani. Quelle periferie che racconta spietata in Via dei Cinquecento, il palazzo degli sfrattati: “…e la fame non appagata/gli urli dei bimbi non placati/il petto delle mamme tisiche e l’odore/ odor di cenci, d’escrementi, di morti-serpeggiante nei tetri corridoi”.
Si può leggerlo come il diario di un’anima e si può leggerlo come un libro di poesia”diceva Montale delle poesie di Pozzi, nella prima versione manomesse dal padre, avvocato fascista che aveva censurato i versi per lui più indecenti, così come aveva occultato lo scandalo più grande, il suicidio, edulcorato in polmonite fulminante. Mentre Montale invitava a leggere soprattutto il “libro di poesia” e la bellezza dei versi, nella riscoperta di Antonia Pozzi fatalmente si è preso parecchio spazio anche il “diario dell’anima”, la sua biografia, l’icona dark della giovane poetessa suicida sfibrata dal male di vivere e dagli amori infelici. “Per troppa vita che ho nel sangue tremo nel vasto inverno” scriveva lei, ed è la regista Marina Spada a parlare di sensibilità punk ante litteram. E non è poi così strano trovare sue citazioni persino nei blog dei metallari. Nei altri due film più recenti, Il cielo in me, Vita irrimediabile di una poetessa del 2014 di Sabrina Bonaiuti e Marco Ongania e nel 2015 Antonia di Ferdinando Cito Filomarino, che in questi mesi sta girando molti festival e ripercorre gli ultimi dieci anni di vita della Pozzi, l’attenzione vira sul dramma esistenziale. Lo snodo cruciale è l’amore contrastato, e alla fine impedito dalla famiglia, di lei ragazzina 17enne con il suo professore di greco e latino di 18 anni più vecchio. Amor fou ed evento drammatico centrale nella sua vicenda. Su di lei si sono divise anche le sue principali biografe, Alessandra Cenni e la stessa Onorina Dino, l’una ipotizzando amori carnali e forse persino un aborto (del resto nella poesia della Pozzi la figura del bambino non nato, del bambino morto è ricorrente) l’altra accreditando l’immagine di una Pozzi ardente ma “pura”, mistica laica e ribelle.
Un miracolo la Pozzi sembra averlo comunque fatto, un sortilegio capace di tenere insieme mondi e sensibilità sideralmente distanti, religiose e femministe, collettivi alternativi e premi Nobel, metallari e accademici. Merito senz’altro del “libro della poesia”, quelle parole “asciutte e dure come i sassi e come gli ulivi, oppure vestite di veli bianchi strappati” secondo la definizione della stessa Pozzi, che ritroviamo nell’ultima raccolta completa della sua opera Parole, a cura di Onorina Dino e Graziella Bernabò, (Ancora edizioni, 2015) che verrà presentata all’Oberdan il 9 novembre alle 18,30.
Foto: courtesy Cineteca italiana

venerdì 6 novembre 2015

Milonga: Che Bailarin (aka da Zotto)

Serata interessante. Tanta gente ma situazione ballabile, nessun fenomeno, giro piu meno regolare (o almeno meglio di tantissimi altri posti).
Livello medio delle ballerine con cui ho ballato buono/ottimo.
Musicalizador bravo e bella musica.

Da rifare

sabato 31 ottobre 2015

Mostra: "SI COMBATTEVA QUI 1915-1918. Sulle orme degli Alpini nella Grande Guerra"



La Guerra Bianca, come viene chiamata quella combattuta sulle notra montagne nella Prima Guerra Mondiale mi ha sempre particolarmente interessato ed affascinato. Le fatiche e le imprese di chi combatteva a più di 2000 metri, d'estate e soprattutto d'inverno, sono eroiche.
Il punto di vista degli Alpini quindi mi incuriosiva.
La mostra è piccina, una sala, sobria ma piena di informazioni. I tabelloni informativi ben fatti. Anche se sono piuttosto informato ho trovato informazioni veramente interessanti.

La seconda sala era una mostra fotografica di Alessio Franconi, una persona che ha percorso tutti i sentirei di montagna teatro della Guerra Bianca e ne ha fatto delle belle fotografie. Alcuni erano i luoghi che ho percorso quest'estate, e rivedere le foto mi ha riempito ancora di emozioni.






venerdì 30 ottobre 2015

Teatro: Le donne gelose

L'idea di recitare in veneziano la commedia è molto carina. Il veneziano è dialetto che capisco, e che ha una sua musicalità, una sua cadenza particolare.
Quindi far recitare in veneziano attori palesemente non veneziano è stato per me un boomerang. Sentire un forte accento piemontese nell'inflessione di Sora Giulia (ho controllato dopo, e l'attrice è in effetti di Casale Monferrato..) toglie tutto il velo della finzione teatrale. Gli attori palesemente recitano in italiano usando parole veneziane. Alla lunga fastidioso.
Peccato, che lo spettacolo è peraltro piacevole, gli attori sono bravi, le scenografie molto azzeccate e Goldoni al solito godibilissimo nonostante le tre ore di spettacolo (e la scomodità e temperatura del Piccolo Teatro Studio, mannaggia a lui).



Le donne gelose è la prima commedia che Goldoni scrive interamente in veneziano. L’attenzione dell’autore si concentra su una zona circoscritta della città, un vicinato, un periodo preciso, gli ultimi giorni di carnevale, e su un’unica classe sociale di bottegai e mercanti, piccoli borghesi già sulla soglia dell’impoverimento.

«È un mondo chiuso – spiega Sangati - claustrofobico, senza contatti con l’esterno, autoreferenziale, segnato prima ancora che dalla crisi economica da una deriva morale che trascina i protagonisti in un vortice di dipendenza patologica dal gioco, in un turbine di gelosie e invidie deliranti. I rapporti umani sono miseri, ipocriti; le relazioni corrose, ammuffite, perennemente condizionate da motivi economici; l’intimità è squallida, segnata da insulti e botte. Imperano il culto del denaro e una fiducia ossessiva nell’azzardo: solo la sorte infatti può alleviare l’angoscia di (ri)cadere nella miseria, ma si tratta di un sollievo temporaneo per un mondo dal destino ormai segnato. Nessuno lavora, ma le energie si sprecano, tutti si affannano, si inseguono, si consumano, senza trovare una via d’uscita, come in un labirinto in cui si gira a vuoto e si ritorna sempre al punto di partenza».

Goldoni alterna in un montaggio compulsivo interni ed esterni, alto e basso, privato e pubblico: si avverte nel testo una sconnessione, un disordine, l’entropia di una cultura che ha perso definitivamente la sua centralità. Al campiello come luogo di incontro, di scontro, ma anche di festa, si sostituisce il mestissimo Ridotto dove ognuno, protetto dall’anonimato della maschera, può spiare gli altri sperando di non essere riconosciuto.

«È una Venezia anomala, scura, silenziosa – continua il regista – semideserta. Perfino il Carnevale rimane sullo sfondo, confinato fuori scena. La festa per eccellenza del rovesciamento, in cui si può fingere di essere ciò che non si è, non può coinvolgere un ceto che può rovesciarsi solo nel proprio vuoto di valori. L’unico piacere (sadico) per i protagonisti sembra derivare dalla contemplazione delle disgrazie altrui. È il trionfo di un individualismo suicida: non a caso questa generazione non ha figli, al limite allievi addestrati ad affrontare un mondo che non fa sconti».

Durata: tre ore compreso intervallo


Piccolo Teatro Studio Melato
dal 22 ottobre al 22 novembre 2015
Le donne gelose
di Carlo Goldoni
regia Giorgio Sangati
scene Marco Rossi, costumi Gianluca Sbicca
luci Claudio De Pace
trucco e acconciature Aldo Signoretti

personaggi ed interpreti
Lugrezia Sandra Toffolatti
Giulia Valentina Picello
Boldo Paolo Pierobon
Tonina Marta Richeldi
Todero Leonardo De Colle
Orsetta Sara Lazzaro
Chiaretta Elisa Fedrizzi
Baseggio Ruggero Franceschini
Arlecchin Fausto Cabra
Siora Fabia Federica Fabiani
Maschere/servitori del ridotto Alfonso De Vreese, Benedetto Patruno e Marco Risiglione (allievi del Corso Visconti della Scuola di Teatro Luca Ronconi del Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa)

assistente scenografa Giulia Breno
assistente costumista Sara Gomarasca
assistenti alla regia volontari Valeria De Santis, Andrea Tonin

in dialetto veneziano con sovratitoli in italiano


giovedì 29 ottobre 2015

Balletto: Sylvie Guillem - LIFE IN PROGRESS


E' destino che in questo anno difficile gli eventi tanto attesi mi lascino deluso. Dopo l'epica disfatta di Waterloo adesso, in maniera minore, la delusione me la da il passo d'addio di Sylvie Guillem.
Sapevo della sua tournee di addio da almeno un anno, dal debutto di Modena, a cui mi era stato impossibile partecipare. Appena letto che veniva a Milano ho comparato il biglietto, alla non modica cifra di 55 euro. Quindi a teatro ero carico per godermi questa ultima performance.
Sylvie l'avevo già vista ballare in almeno due occasioni, in cui una nel famoso Bolero coreografato da Bejart.
La sua scelta di fare solo contemporaneo "fatto apposta" mi aveva da una parte incuriosito dall'altra lasciato perplesso. MA ero disposto a rischiare.
Si parte ed il primo pezzo, Technè, non è neanche male: lei è al solito molto pulita e precisa, la musica dal vivo la asseconda perfettamente, ma i movimenti coreografici non mi appassionano più di tanto. Va beh, può capitare.
Secondo balletto: Solo due uomini sul palco, niente Sylvie, niente musica.
Io concepisco il balletto come movimento SULLA musica, quindi questo non è un balletto. Sono due corpi che si muovono, magari anche bene (?) ma non si capisce il perché ed il percome. E poi io sono venuto per vedere Sylvie, non due uomini.
Terzo balletto: Here & After. Finalmente. In scena due donne che si muovono su una musica, anche se sottile, che si relazionano, che ballano assieme e in sincrono, con bei movimenti coreografici. Sento finalmente un emozione. Bravissime tutte e due (la seconda è un'italiana, Emanuela Montanari).
intervallo
Si riprende con il gran finale! Bye di Mats Ek, creato apposta per lei nel 2011.
Gran ballerina, gran coreografo, vedrai che botto!
Il botto lo sto ancora aspettando adesso. Al di la dell'idea scenografica della porta che separa i mondi cosa altro c'è? La coreografia è sporca, Sylvie lancia in aria la sua famosa gamba almeno 10 volte, forse perchè non c'é di meglio da fare, ma per il resto tutto è confuso. C'è un accompagnamento di piano che sarebbe perfetto, ma lei sembra addirittura imprecisa. Mi sono ritrovato a pensare ad altro, nella noia del balletto.
Finito
Uno bello, uno cosi cosi, uno brutto. E' così che mi dovrò ricordare Sylvie Guillem? meglio cancellare e ricordare un passato più glorioso.

PS: Il pubblico, numeroso e giovane, ha tributato ovazioni entusiastiche alla protagonista. Boati, standing ovation. Veramente esagerati per la performance. Mi chiedo se tutti questi sanno chi sono venuti a vedere o sono solo stati attratti dalla bagarre pubblicitaria. Sylvie non veniva a Milano da almeno 10 anni (non sono sicuro) quindi in moltissimi non l'avranno mai vista, ma solo sentita nominare. Quindi immagino avranno voluto mandare un tributo all'artista, più che alla performance. Va beh.

Io rimango deluso


lunedì 26 ottobre 2015

Milonga: Biko

Il Biko è proprio cambiato.
La vecchia gente non c'è più, si vedono invece signore agè che mai ti aspetteresti ad un circolo ARCI.
Ed il livello è veramente basso. A parte le signore di cui sopra ci sono due o tre fenomeni da circo (uomini) che si esibiscono (ma alle signore piacciono..). Stasera c'era anche una spiritata che si agitava convulsamente sulla pista ma che è stata invitata costantemente, forse nella speranza di un dopo milonga trasgressivo.. non ho altre ipotesi.
Ho quindi preso i miei bei pacchi, Ho ballato bene solo la prima tanda con una ragazza non tanto esperta ma volenterosa e l'ultima con una signora simpatica e brava.

sabato 24 ottobre 2015

Cinema: Sopravvissuto - The Martian


Bel film di avventura. Certo che ormai è difficile che alla mente non ti richiami tutti i film di fantascienza visti prima. Ma la parte su Marte è originale. Si poteva forse ridurre un po il viaggio sul pianeta, ma tutto il finale è una continua tensione emotiva. Ridley Scott ci sa ancora fare.



La più umana delle odissee, la più scientifica delle fantascienze
Emanuele Sacchi      *  *  *  1/2  -

L'equipaggio della missione Ares 3 sul suolo di Marte si trova nel mezzo di una tempesta che non lascia scampo. Il botanico Watney viene colpito da un detrito: credendolo morto, il comandante Lewis ordina alla squadra di abortire la missione e tornare sulla Terra. Ma Watney è vivo e, mentre cercherà di prolungare il più possibile la sua sopravvivenza sul Pianeta Rosso, la Nasa ricorrerà a ogni stratagemma per provare a riportarlo a casa.
Hanno detto che Sopravvissuto - The Martian rimette la "sci" in sci-fi, ovvero pone l'accento sulla "scienza" di fantascienza. E non sono andati lontani dal vero. Ridley Scott, alle prese con uno script non suo - autore il Drew Goddard della scuderia Joss Whedon - e tratto dal meticoloso romanzo di Andy Weir, un ingegnere informatico reinventatosi scrittore, si dimentica di essere il profeta dei futuri distopici di Alien e Blade Runner. E si limita a fare quel che gli riesce meglio, ossia rendere cinematografica materia che tale non è. Concedendo qualcosa al 3D ma il minimo indispensabile alla computer graphics, Scott consegna la sua epica alle riprese in esterni della desolazione marziana. Le passeggiate di Matt Damon sul suolo di Marte, a bordo del suo rover, ricordano tanto le cavalcate fordiane nella Monumental Valley che gli orizzonti infiniti di Lawrence d'Arabia. E non casualmente, visto che quest'ultimo è stato girato in luoghi vicini al deserto della Giordania scelto per The Martian. La visione di Scott e il suo racconto di un'odissea in cui Ulisse e Robinson Crusoe trovano un ideale punto d'incontro procede in parallelo con i teoremi infallibili di Weir, che vede nel suo protagonista l'ingegnere perfetto, un MacGyver di Marte pronto a elaborare modalità di sopravvivenza sempre nuove in un pianeta ostile. Rosso, brullo e indomabile, il quarto pianeta viene privato della allure che lo ha accompagnato in un tutt'altro che brillante passato cinematografico, attraverso l'espediente di ipotetiche civiltà pre-terrestri (Mission to Mars) o alieni belligeranti (La guerra dei mondi). E presentato per ciò che è, un gigantesco e suggestivo ostacolo alla vita. Solo con la forza dello humour da middle-class americana di Damon-Watney e con il pragmatismo della Nasa (collaboratrice e sponsor del film) il racconto regge per la sua lunga durata, avvince e infine porta all'immedesimazione con il protagonista. E pur trattandosi questi, ancora una volta, di un Matt Damon da salvare (Salvate il soldato Ryan) per il bene dell'America e del mondo, lo script spinge il minimo indispensabile sul pedale di un enfatico patriottismo; scegliendo anzi, con un'inattesa svolta narrativa, di ridimensionare il ruolo statunitense di superpotenza infallibile. Il futuro non è mai parso più verosimile di così, divaricando ulteriormente le due storiche branche della fantascienza: da un lato una space opera sempre più assetata di effetti speciali e meraviglie, dall'altro la controparte pseudo-scientifica, con i piedi ben piantati per terra, nonostante gli occhi osservino il cielo. Con buona pace di chi cerca una sua personale terza via, come il Nolan di Interstellar. Resta da domandarsi, visto il palesato intento di promozione a un rilancio dei viaggi aerospaziali della Nasa, se si tratti di uno spot centrato o controproducente. Proprio in virtù della stretta aderenza ai fatti di The Martian, infatti, Marte come meta non è mai parsa meno allettante di così. Omini verdi malvagi con i laser compresi.

domenica 18 ottobre 2015

Musei: La vigna di Leonardo


La parte piu interessante non è certamente la Vigna ma la casa ed il giardino del palazzo degli Atellani, successivamente risistemato dal Portaluppi, architetto milanese degli anni venti a cui di devono tanti interventi in città.
Casa affrescata che ancora evoca il periodo sforzesco anche se gli interventi degli anni 20 ci sono stati ma sono integrati nell'originale. 
Il giardino ricorda atmosfere lacustri (sarà stato anche il tempo uggioso) ma di grande suggestione.











venerdì 16 ottobre 2015

Expo: serale


Sesta volta ad Expo ed ancora non mi basta.
Mai vista tanta gente dentro nelle volte precedenti, anche se entro senza coda.
Per la prima volta prendo la navetta interna per risparmiarmi un bel pezzo di strada.
Alle 7 le code sono ancora lunga e non abbiamo tanta voglia di farle.
Riusciamo ad entrare bene a Cascina Triulzia (un po deludente) nel Sudan, in Irlanda, poi in Corea con mezz'ora di coda, Malaysia giusto prima che chiuda.
Poi a mangiare riso e polly al curry nel Cluseter del Riso (Bangladesch) e finire con una cCrepe al Grand Marnier.

giovedì 15 ottobre 2015

Teatro: Morte di un commesso viaggiatore


Lo spettacolo è un calssico della drammaturgia contemporanea.
Ormai per la media degli spettacoli di oggi è lunghissimo (circa tre ore e mezza). Troppo.
Attori straordinari e tema ancora estremamente di attualità, ma un secondo tempo lungo, con una ripetizione dei concetti che si poteva evitare.
Comunque un bello spettacolo.


MORTE DI UN COMMESSO VIAGGIATORE
di Arthur Miller
traduzione di Masolino d'Amico
regia di Elio De Capitani
scene e costumi Carlo Sala
con Elio De Capitani [Willy Loman], Cristina Crippa [Linda Loman], Angelo Di Genio [Biff Loman], Marco Bonadei [Happy Loman], Federico Vanni [Charley - Milano + tournée novembre/dal 29 marzo al 17 aprile] - Roberto Abbati [Charley - tournée dicembre/dal 10 al 22 marzo], Matthieu Pastore [Bernard - Milano] - Daniele Marmi [Bernard - tournée], Gabriele Calindri [Ben], Alice Redini [La Donna/Letta], Vincenzo Zampa [Howard Wagner/Stanley], Marta Pizzigallo [Miss Forsythe/Jenny - Milano + tournée] - Vanessa Korn [Miss Forsythe/Jenny - tournée novembre]
luci di Michele Ceglia
suono di Giuseppe Marzoli
produzione Teatro dell'Elfo con il contributo di Fondazione Cariplo

sabato 3 ottobre 2015

Mostra: Acqua Shock


Mostra meravigliosa: tante fotografie di grande formato scattate da punti di vista insoliti, la maggior parte dall'alto. Idee di natura, presenza umano, degrado, meraviglia.
Da rimanere attoniti



Edward Burtynsky, grande interprete della fotografia internazionale, da sempre documenta gli effetti del nostro progresso sul pianeta. Attraverso ricerche approfondite e lunghi viaggi ha scoperto e raccontato realtà solo in apparenza lontane, ma strettamente collegate al futuro del genere umano.

Le risorse naturali sono al centro del suo lavoro e dopo le affascinanti immagini delle cave e la magnifica serie dedicata al petrolio, negli ultimi anni si è rivolto allo studio della primaria fonte di vita sulla terra.

Acqua Shock raccoglie 60 fotografie divise in sette capitoli – Golfo del Messico, Devastazioni, Controllo, Agricoltura, Acquacoltura, Rive, Sorgenti – l’analisi di tutti gli aspetti connessi all’origine e all’utilizzo dell’acqua: dal delta dei fiumi ai pozzi a gradini, dalle colture acquatiche alle irrigazioni a pivot centrale, dai paesaggi disidratati alle sorgenti indispensabili.

“Immagini splendide – afferma Enrica Viganò – specchio di una verità che non vogliamo affrontare: il liquido più prezioso non è eterno!  La straordinaria bellezza degli scenari fotografati da Burtynsky ci invita alla riflessione, dopo aver incantato il nostro sguardo con il fascino del sublime”.

In mostra sarà proiettato il documentario “Where I Stand” (10 min.) prodotto dallo Studio Burtynsky per coinvolgere i visitatori nel processo di produzione di queste magnifiche immagini. In più di trent’anni di carriera l’artista che da sempre fotografa grandi vedute ha potuto e voluto aggiornare  la tecnica dei suoi scatti e ce ne svela i segreti. Per il progetto sull’acqua Burtynsky ha fatto ampio uso di droni, elicotteri e strutture per poter guardare dall’alto i suoi soggetti.





venerdì 2 ottobre 2015

Cinema: io e lei

http://www.mymovies.it/film/2015/ioelei/

Film interessante nella prima parte ma che si perde via via nella noia di una storia già vista e sentita mille volte.




lunedì 21 settembre 2015

MiTo Dance Closing Party

Finalmente un party! Un'esperienza diversa e decisamente coinvolgente, con alti e bassi, ma magari il pubblico a cui si rivolgeva era eterogeneo e molti sembravano apprezzare anche quello che a me colpiva meno.
Ma sicuramente una bella serata, e la Big Band dal vivo she suonava i vecchi standard jazz o gli EW&F è stao mitico.