venerdì 30 gennaio 2015

Cinema: Hungry Hearts



Costanzo mette a frutto la conoscenza delle dinamiche del thriller per porla al servizio di una riflessione profonda sulla genitorialità al tempo degli OGM
Giancarlo Zappoli      *  *  *  1/2  -

Mina e Jude si incontrano per la prima volta in un'angusta toilette di un ristorante cinese. Da lì nasce una relazione che darà alla luce un bambino e li porterà al matrimonio. Dal colloquio con una veggente a pagamento Mina si convince che il suo sarà un figlio speciale che andrà protetto da ogni impurità. Inizia a coltivare ortaggi sul terrazzo di casa e per mesi non lo fa uscire imponendo regole alimentari che ne impediscono la regolare crescita. Jude decide di opporsi a queste scelte portando di nascosto il figlio da un medico che mette in evidenza la gravità della situazione. Mina però cede solo apparentemente alle richieste del coniuge e il conflitto si fa più acuto.
Il disagio, il malessere esistenziale sono da sempre al centro del cinema di Saverio Costanzo. Che si tratti dei palestinesi di Private, dei seminaristi di In memoria di me o dei giovani de La solitudine dei numeri primi la sua macchina da presa inquadra situazioni che sono al contempo estreme e quotidiane. È quanto accade anche in questo film che trae ispirazione dal romanzo "Il bambino indaco" di Marco Franzoso in cui Costanzo mette a frutto la propria profonda conoscenza delle dinamiche del thriller per porla al servizio di una riflessione profonda sulla genitorialità al tempo degli OGM ma non solo.
Il filosofo e sociologo Zygmund Bauman ci ricorda che: "La nostra è un'epoca nella quale i figli sono, prima di ogni altra cosa e più di ogni altra cosa, oggetti di consumo emotivo. Gli oggetti di consumo soddisfano i bisogni, desideri o capricci del consumatore e altrettanto fanno i figli. I figli sono desiderati per la gioia dei piaceri genitoriali che si spera arrecheranno il tipo di gioie che nessun altro oggetto di consumo, per quanto ingegnoso e sofisticato, può offrire". È questo tipo di consumo che Mina (precocissima orfana di madre e con un padre con cui non ha più contatti) sta cercando, anche se vorrebbe evitarne inizialmente, l'avveramento. Costanzo non vuole fare il fustigatore di teorie e/o credenze più o meno diffuse (osservanza vegana compresa) perché di fatto spinge il suo sguardo decisamente molto più in là.
Mina non è una Rosemary polanskiana più o meno consapevolmente gravida di demoni interiori. È una donna che dimentica di essere tale (quindi annullando anche la propria sessualità che era in precedenza vitale e solare) in funzione di una 'proprietà', quella del figlio, che diviene totalizzante. Il punto di non ritorno è quando utilizza l'aggettivo possessivo più improprio ("mio") nei confronti del neonato. Da quel momento Jude viene estromesso (con sentenza passata in giudicato nella mente della compagna) dalla condivisione che è propria dell'essere genitori. Per far ciò non è necessario essere vittime di ossessioni nutrizionistiche. È sufficiente ritenere di essere gli unici depositari del sapere 'cosa è bene' per l'essere umano in formazione rifiutando qualsiasi confronto. Il cordone ombelicale non è solo un elemento fisiologico. È fatto di sensibilità, di cultura, di influssi sociali tra i quali è sempre più difficile discernere. I cuori affamati del titolo sempre più spesso rischiano di divorare, con la pretesa dell'amore, ciò che dovrebbe costituire il senso del loro stesso pulsare. Costanzo sa come descrivere questo processo.

Film incompiuto, che lascia tanti punti irrisolti. un po deludente


venerdì 23 gennaio 2015

Milonga: Che Bailarin


Serata affollata il giusto, con ballerine interessanti. Avevo mal di testa e questo mi ha certo limitato, ma in generale tutto bene

Teatro: Otello


Un Otello scarnificato, ridotto a tre, anzi quattro personaggi: il condottiero, l’alfiere, Desdemona, ai quali si aggiunge l’invenzione di un soldato che si fa narratore, coscienza critica, coro.
A partire da Shakespeare un altro Otello. La lingua italiana e quella siciliana si fronteggiano a colpi di endecasillabi nel testo riscritto e diretto da Luigi Lo Cascio, che sceglie per il ruolo del titolo Vincenzo Pirrotta e riserva per sé quello di Iago.
Il plot si presenta modificato a partire dalla sequenza temporale. La tragedia di Otello è già compiuta. E ciò che lo ha condotto al compimento del suo atto scellerato non è dovuto alle implicazioni che derivano dal colore nero della pelle. Ma da quella differenza fondamentale che talvolta, invece di generare un incontro tutto da costruire in virtù del desiderio, spalanca un varco da cui può irrompere un odio smisurato. È la differenza tra uomo e donna”.

Otello
di Luigi Lo Cascio
liberamente ispirato a "Otello" di William Shakespeare
regia Luigi Lo Cascio
scenografie, costumi e animazioni Nicola Console e Alice Mangano
musiche Andrea Rocca
luci Pasquale Mari
con Vincenzo Pirrotta e Luigi Lo Cascio, Valentina Cenni, Giovanni Calcagno 
produzione Teatro Stabile di Catania, E.R.T. Emilia Romagna Teatro Fondazione


sabato 17 gennaio 2015

Teatro: Buffa racconta l'olimpiade del 1936



LE OLIMPIADI DEL 1936

con Federico Buffa
produzione TieffeTeatro
PRIMA NAZIONALE



Federico Buffa, cronista e commentatore sportivo, affabula e conquista il pubblico con il suo stile avvolgente ed evocativo. Lo spettacolo, partendo dalla narrazione di una delle edizioni più controverse dei Giochi Olimpici, quella del 1936, racconta una storia di sport e di guerra.

Le storie dello sport, sono storie di uomini. Sono storie che scorrono assieme al Tempo dell’umanità, seguono i cambiamenti e i passaggi delle epoche, a volte li superano.
È capitato a Berlino nel ‘36 quando Hitler e Goebbels volevano trasformare le loro Olimpiadi, o quello che credettero fossero le “loro” Olimpiadi, nell’apoteosi della razza ariana e del “nuovo corso”. E invece quelle Olimpiadi costruirono i simboli più luminosi dell’uguaglianza. Il primo giorno di gara due atleti neri sul podio del salto in alto Cornelius Jonshon e Dave Albritton. Al secondo giorno qualcuno consigliò il fuhrer sul fatto che non era proprio più il caso di salutare personalmente gli atleti vincitori di medaglie. Jesse Owens di medaglie ne vinse addirittura 4, due record mondiali e un record olimpico e il tutto documentato e in diretta con le immagini di Lene Riefensthahl: la sua libertà creativa ha consentito di regalare all’umanità la straordinaria smorfia di disappunto di Hitler al terzo oro di Owens. Mentre in quella stessa estate del ‘36 il mondo assisteva in colpevole silenzio alla tragedia della guerra civile spagnola e la pace scricchiolava sull’asse Roma Berlino Tokyo, le Olimpiadi illuminavano il cielo con un’altra storia, forse la più incredibile. Due atleti giapponesi arrivarono primo e terzo alla maratona di Berlino. Alla premiazione mentre ascoltavano l’inno la loro testa era china. Non erano giapponesi, erano Coreani. Il vincitore Sohn Kee Chung, 52 anni dopo portava dentro lo stadio di Seul la fiamma olimpica del 1988 indossando come una seconda pelle e finalmente la maglia della sua nazione, la Corea. Le storie dello sport sono storie di uomini, scorrono assieme al tempo, ma a volte lo fermano quasi a chiedere a tutti una riflessione, una sospensione. Non è andata così.

Le Olimpiadi del 36 una storia fatta di tante storie e dentro altre storie. FEDERICO BUFFA

Strano vedere "lo zio" a Teatro. I ragazzi sono emozionati.
Lo spettacolo è altalenante. Bello quando Federico racconta, mediocre nelle parti di contorno.

venerdì 16 gennaio 2015

Cinema: I toni dell'amore


Una storia d'amore profondo raccontata in toni gentili e pazienti
Paola Casella      *  *  *  1/2  -


Ben e George, l'uno settantunenne, l'altro intorno ai sessanta, vivono insieme da 39 anni, e le loro esistenze sono profondamente interconnesse: la prima scena del film li vede dormire insieme, braccia e gambe intrecciate, come è intrecciata la loro quotidianità in un appartamento di Manhattan elegantemente decorato. Ben è un pittore, George insegna pianoforte e dirige il coro dei ragazzi di una scuola cattolica. Tutti sembrano accettare serenamente la loro convivenza: gli amici, i parenti, i genitori degli studenti di George, il preside della scuola cattolica. Ma quando Ben e George decidono di coronare la loro storia d'amore con un matrimonio, l'idillio si spezza. La Chiesa cattolica, che aveva dimostrato tanta privata tolleranza, licenzia George in tronco per aver pubblicamente ufficializzato l'esistente, trattandolo come se "essere se stessi fosse disdicevole", come sintetizza l'insegnante con quieta lucidità. L'ammanco dello stipendio di George crea un'emergenza domestica: i neo coniugi non possono più permettersi la loro bella casa e devono trovare una soluzione più adeguata alla nuova situazione economica. E poiché la loro casa viene subito acquistata mentre quella futura non è così facilmente reperibile, i due sono costretti a dividersi e a farsi ospitare dai membri della loro cerchia: Ben alloggerà presso il nipote Elliott, George presso una coppia di poliziotti. Entrambi scopriranno "come sa di sale... lo scendere e 'l salir per l'altrui scale", sentendosi l'uno invaso dal caos che improvvisamente lo circonda (George), l'altro "di troppo" rispetto al precario equilibrio della famiglia che lo accoglie (Ben).
Qualunque sitcom o film piacione hollywoodiano avrebbe raccontato questa storia come una farsa, con tanto di siparietti (o battutacce) gay. Molti film indipendenti avrebbero invece forzato l'aspetto pedagogico, accentuando in positivo il valore trasformativo della presenza di Ben e George nelle "vite degli altri". Ira Sachs, uno dei registi americani indipendenti più riconoscibile per toni e obiettivi artistici, non cade invece in nessuna delle due trappole, scegliendo di raccontare la vita come è, non come vorremmo che fosse, o accompagnata dalle risate registrate. Dunque il disagio di tutti i personaggi appare autentico, il dispiacere di Ben e George nel rimanere lontani è palpabile, le difficoltà logistiche di trovare casa in una delle città più concupite del pianeta, malgrado la crisi immobiliare, sono reali: I toni dell'amore è anche la quintessenza della New York story, imbevuta di genuino amore per la città, cartina di tornasole della nostra epoca estetizzante e crudele.
Sachs racconta una storia d'amore profondo in toni gentili e pazienti chiedendo al pubblico di esserlo altrettanto, e di dare alla visione del suo film tutta la cura e l'attenzione necessari per non cedere alla lentezza e all'apparente mancanza di svolte narrative. In realtà è proprio nelle quiete transizioni fra una scena e l'altra che risiede il senso e lo stile della narrazione, una sorta di malinconica leggerezza che ha i suoi tempi e, come dice George a una sua studentessa, "non si possono imporre i propri tempi a Chopin". Momenti apparentemente poco importanti vengono giustapposti nel misurato crescendo di un pathos straziante, istantanee di quotidianità scansano il melodramma senza negare la tragedia romantica che è in atto: due uomini avanti negli anni costretti ad affrontare, per la prima volta da soli dopo quarant'anni insieme, la perdita di reddito e di status, di un tetto sopra la testa, di un'armonia che credevano "per sempre".
Proprio in questo sta l'universalità della loro storia, nell'illustrazione riconoscibile di quanto sia facile, oggi, perdere in un attimo le proprie certezze, e quanto sia fragile la rete di affetti che ci circonda nel momento in cui quelle certezze vengono meno. Sachs non condanna nessuno, nemmeno la Chiesa, ma con estrema delicatezza e infinita dolcezza dello sguardo ci fa innamorare dei suoi due protagonisti, interpretati con inarrivabile immedesimazione da John Litgow e Alfred Molina, e ci fa soffrire con loro: si chiama empatia, ed è merce rara, di questi tempi.

domenica 11 gennaio 2015

Milonga: la pratica del Bellezza

Caldo e tanta gente, con i soliti problemi del caso.
Ma essendo una pratica ci si adatta tutti e, pur con qualche scossone, si portano a casa alcune tande accettabili, anche se senza lode.


venerdì 9 gennaio 2015

Cinema: American Sniper


Sobrio, lucido, senza contratture il film racconta l'idiozia della guerra con le sue assurde regole e i suoi deliranti perimetri di orrore
Marzia Gandolfi      *  *  *  *  -

Chris Kyle, texano che cavalca tori e non manca un bersaglio, ha deciso di mettere il suo dono al servizio degli Stati Uniti, fiaccati dagli attentati alle sedi diplomatiche in Kenia e in Tanzania. Arruolatosi nel 1999 nelle forze speciali dei Navy Seal, Kyle ha stoffa e determinazione per riuscire e ottenere l'abilitazione. Perché come gli diceva suo padre da bambino lui è nato 'pastore di gregge', votato alla tutela dei più deboli contro i lupi famelici. Operativo dal 2003, parte per l'Iraq e diventa in sei anni, 1000 giorni e quattro turni una leggenda a colpi di fucile. Un colpo, un uomo. Centosessanta uomini abbattuti (e certificati) dopo, Chris Kyle torna a casa, dalla moglie, dai bambini e dai reduci, a cui adesso guarda le spalle dai fantasmi della guerra del Golfo. Una dedizione che gli sarà fatale.
Come il proiettile di un tiratore scelto, "il sentimento dell'assurdità potrebbe colpire un uomo in faccia ad ogni angolo di strada", diceva Albert Camus e argomenta Clint Eastwood in American Sniper, preciso capolinea della guerra in Iraq e di una filmografia che dagli anni Novanta ha provato a mettere ordine nell'ambiguo mare di sensazioni suscitate da quell'evento o a funzionare qualche volta da supporto narrativo alla costruzione di una legittimità anche finzionale per il governo americano. Impossibile allora leggere American Sniper senza considerare il cinema che lo ha anticipato, addestrato e maturato, quello di David O. Russell (Three Kings), di Werner Herzog (Apocalisse nel deserto), di Sam Mendes (Jarhead), di Paul Haggis (Nella Valle di Elah), di Brian De Palma (Redacted), di Kathryn Bigelow (The Hurt Locker).
Girati prima e dopo l'undici settembre, frattura storica, categoria dell'immaginario e spartiacque per la produzione cinematografica, ciascuno di loro ha provato a capovolgere la visone ufficiale di una guerra che ha bruciato vite e petrolio, gettando fumo nero sugli occhi dei (tele)spettatori. Diario visivo di un Navy Seal coinvolto nell'orrore che si ritrova ad abitare, American Sniper sale sui tetti col suo cecchino e trova il punto di osservazione migliore per dire l'idiozia della guerra con le sue assurde regole e i suoi deliranti perimetri di orrore. Ma Eastwood fa qualcosa di più che denunciare, si prende il rischio di raccontare quell'incoerenza attraverso un personaggio che in quella guerra credeva davvero, che nel suo mestiere, quello delle armi, confidava. Armato di fucile e bibbia, il Seal di Bradley Cooper inchioda i cattivi al destino che meritano, guardando le spalle ai marines che casa per casa cercano il male o il delirio paranoico. Ma Chris Kyle non è un militare accecato dal testosterone, Chris Kyle è un uomo che sa bene, come racconta al figlio, che fermare un cuore che batte è una cosa grossa.
Appesantito dal peso dei colpi che mette a tiro e dalle scelte che compie il suo personaggio dietro al mirino, Bradley Cooper infila la bolla allucinatoria che la guerra soffia sui soldati e aderisce alla genuina ingenuità di un soldato che sognava un mondo perfetto. E il sentimento di pietà che il ranger di Un mondo perfetto riservava all'uomo in fuga di Kevin Costner, Eastwood adesso lo chiede allo spettatore, sollevando Kyle dal giudizio e confermando di essere sempre in grado di cogliere il bilico tra ombra e luce. La semplicità ideologica di Kyle e la sua immediatezza comunicativa non sono prive di complessità. Kyle è un adulto pronto ad affrontare ogni prova con forza e coerenza, supportato dal sentimento e da una fede incrollabile. Diversamente dall'artificiere della Bigelow, che disarma là dove Kyle arma, lo sniper di Eastwood è in grado di ritrovare l'intima misura, il ritmo che lo lega al mondo e alla coscienza di esistere. Kyle non è certo immune al disorientamento progressivo che genera l'azione bellica e l'investitura di eroe, nondimeno è capace di ammettere le proprie responsabilità, davanti a dio e allo psichiatra, rimettendo il debito di adrenalina e riallineando le cicatrici. Ma è proprio a casa, nella sua amata patria e davanti a un marine che voleva richiamare da una non vita, che si compie la beffa e si realizza l'assurdità della guerra, ridotta da Clint a esercizio di idiozia, vedi i soldati-ingegneri sacrificati al cecchino iracheno sul muro di gomma. Se Chris Kyle, quello vero, non fosse morto assassinato da un reduce impazzito lo scorso febbraio, con ogni probabilità American Sniper lo avrebbe girato un altro regista, ricettivo alla manifestazione dell'eroismo americano. Perché è proprio quel tragico epilogo a emergere tutto il nonsenso, ad affrancarlo dal particolare e a convincere l'autore americano a farne una storia universale.
A Clint non piacciono le chiacchiere ed è pronto a rinunciarci pur di far capire le cose visivamente, penetrando il nucleo stesso del reale con l'aiuto della sensibilità. Contro l'effimero senza malinconia, Clint Eastwood mette in scena la parabola di un reduce, che come tutti i reduci, non è ancora morto ma sta morendo, ucciso dal fuoco amico, ucciso dal proprio Paese. Fantasma che vagola, che non vive ma sopravvive, Gran Torino di cui non ci si fa nulla se non lasciarla in garage, senza uno spazio in cui muoverla, senza un futuro in cui accenderla. Solo un presente in cui ogni tanto scoprirla e lucidarla, blaterando di patriottismo e trascurando le conseguenze che la sciagurata fase della politica internazionale degli Stati Uniti ha sul suo stesso tessuto sociale.
Sobrio, lucido, senza contratture, American Sniper, basato sull'autobiografia di Chris Kyle, squaderna un Paese che seguita a duellare con la morte in nome della 'vita', un Paese che congeda con tre spari e col Silenzio un altro soldato, scomparso fuori campo e nascosto in un posto "tra il nulla e l'addio".

Film tosto, coinvolgente, che lascia attoniti.



venerdì 2 gennaio 2015

Mostra: Boldini, le Parisien d'Italie


Mostra piccola ma bellissima, non conoscevo Boldini ma ne aono rimasto affascinato.
Da lui e dalle sue donne..


Teatro: La verità


“La Verità è tutto ciò che abbiamo sognato, ciò che abbiamo vissuto, ciò che abbiamo inventato, tutto quello che fa parte della nostra memoria”.
È in questo appunto, scritto chissà quando da sua moglie su un taccuino, che Daniele Finzi Pasca trova il senso del titolo. In esso abbina l’acrobazia, il teatro, la danza e la musica, con la presenza di 13 artisti riuniti intorno a un gigantesco fondale originale dipinto da Salvador Dalí, negli anni ’40 a New York per il balletto Tristan Fou.
“Una collezione d’arte europea - spiega Finzi Pasca - ci chiama per proporci di utilizzarlo in uno spettacolo. Un vero Dalí in scena? Enorme e bello, toglie il fiato...”.
Intorno a questo pezzo unico d’arte si sviluppa l’idea dello spettacolo, una storia surreale di “mani con dita lunghissime, ombre che deformano le proporzioni, rosso sangue, bianco, il blu del mantello di Maria, scale sospese nel vuoto, equilibri impossibili, corpi che si dislocano, piume e paillettes come se la storia prendesse vita in un vaudeville decadente con un direttore che cerca idee per risollevare le sorti della baracca”. È un poema acrobatico e surrealistico composto dalla visione di un gruppo di creatori dei quali la firma è unica.

Perché vederlo?
Per rimanere affascinati dal magnetismo acrobatico e dalla delicata leggerezza degli interpreti. Per assistere a uno spettacolo che sorprende e circonda lo spettatore di un’atmosfera surreale, da sogno.

La Verità
autore, regista, co-design luci e coreografie Daniele Finzi Pasca
direttrice di creazione, produttrice e partecipazione alla scrittura Julie Hamelin Finzi
musiche sound design e co-design coreografie Maria Bonzanigo
scenografia, accessori e ideazione Hugojo e L’hugo Hugo Gargiulo
produttore esecutivo e consulente artistico Antonio Vergamini