giovedì 19 febbraio 2015

Cinema: Birdman


Un film magmatico, gioiosamente ridondante, tracimante vita ed ambizione
Paola Casella      *  *  *  1/2  -

Riggan Thompson è una star che ha raggiunto il successo planetario nel ruolo di Birdman, supereroe alato e mascherato. Ma la celebrità non gli basta, Riggan vuole dimostrare di essere anche un bravo attore. Decide allora di lanciarsi in una folle impresa: scrivere l'adattamento del racconto di Raymond Carver Di cosa parliamo quando parliamo d'amore, e dirigerlo e interpretarlo in uno storico teatro di Broadway. Nell'impresa vengono coinvolti la figlia ribelle Sam, appena uscita dal centro di disintossicazione, l'amante Laura, l'amico produttore Jake, un'attrice il cui sogno di bambina era calcare il palcoscenico a Broadway, un attore di grande talento ma di pessimo carattere. Riuscirà Riggan a portare a termine la sua donchisciottesca avventura?
Dopo il tuffo negli abissi della disperazione di Biutiful, capolavoro poco apprezzato dal grande pubblico, il regista messicano Alejandro Gonzalez Inarritu si cimenta con la commedia, benché agrodolce e in alcuni tratti quasi nera. Temi principali sono l'ego, in particolare quello maschile, e l'incapacità di distinguere l'amore degli altri dalla loro approvazione. Chi meglio di un attore molto amato ma poco apprezzato per rappresentarlo? Inarritu scandaglia l'animo di Riggan usando la cinepresa come mai aveva fatto prima, ovvero cimentandosi in una serie praticamente infinita di piani sequenza all'interno dei quali gli attori recitano senza inerruzioni come su un palcoscenico teatrale, entrando e uscendo continuamente dal teatro in cui si svolge prevalentemente l'azione alla strada, e dentro e fuori i camerrini, i corridoi, il backstage del teatro stesso. In un gioco continuo di immagini rifratte attraverso specchi e spiragli.
Il paragone con Robert Altman è inevitabile: i piani sequenza (come quello iniziale de I protagonisti), l'adattamento da Carver (come in America Oggi), la messa in ridicolo corale del mondo dello spettacolo (Nashville, I protagonisti, Radio America). Come è altmaniana la visione da insider della Hollywood contemporanea, in particolare quella dei franchise dedicati ai supereroi, "pornografia apocalittica" responsabile dell'infantilizzazione irreversibile del pubblico.
Birdman è anche un capolavoro di metacinema: il protagonista è quel Michael Keaton che deve la sua celebrità all'interpretazione di Batman (ma che è anche un grande attore, come dimostra appieno nel film di Inarritu); è più volte citato The Avengers, il film cui Edward Norton, che in Birdman ha il ruolo del prim'attore, ha rifiutato di partecipare nei panni di Hulk, dopo aver litigato con la produzione del film sul gigante verde. E c'è una scena in cui Inarritu fa ciò che Hollywood vorrebbe da ogni regista, dopo aver fatto per tutto il resto del film ciò che Hollywood detesta (tranne la notte degli Oscar): infiniti virtuosismi registici, dialoghi interminabili, mancanza di un eroe immediatamente identificabile.
Birdman è apparentemente privo di montaggio (o meglio: il montaggio è molto attento a "non interrompere un'emozione") il cui ritmo è dato da una pianificazione meticolosa, una inarrestabile agilità nei movimenti di macchina, una recitazione rocambolesca, un incalzante rullo di batteria che accompagna tutte le azioni che coinvolgono Riggan. Ed è un esperimento in linguaggio cinematografico coraggioso e spaccone, reboante e ridondante, eccessivo ma funzionale alla storia che narra. Inarritu racconta l'uomo (e in particolare il maschio) nella sua fragilità e contraddizione, nei suoi sogni di gloria e le sue delusioni di vita. Racconta la presunzione, ma anche la vulnerabilità, di ogni artista, o anche di chi crede di esserlo ed è costretto a confrontarsi con l'evidenza contraria. Attraverso lo sguardo di Riggan, il regista commenta su tutta la società contemporanea, sul "genocidio culturale" in corso e sulla prevalenza fagocitante dei social media, creatori di una nuova forma di ambizione, quella di diventare virale, e una nuova forma di delusione, quella di credere che milioni di contatti equivalgano ad un singolo attestato di stima.
Il risultato è un film magmatico (e in questo senso perfettamente "almaniano") che è un piacere per gli spettatori, gioiosamente ridondante e tracimante vita ed ambizione. Nella sua bulimia creativa Inarritu inanella troppi finali, ma è difficile biasmiarlo per la volontà di dire troppo invece che tutto, ricordando che chi rischia cammina sempre sull'orlo dell'abisso.

Bel film, interessante, girato e montato benissimo.
Edward Norton ed Emma Stone su tutti




lunedì 16 febbraio 2015

Milonga: Biko

Casino: come al solito
Caldo: un po pi del solito
Ballerine: poche buone e molto impegnate.
Fortuna che c'erano Sara e Marisa per chiaccherare.

domenica 15 febbraio 2015

Milonga: Pratica da Zotto

In effetti una vera pratica nasce per far provare i neofiti. Spesso ce se lo dimentica.
Da Zotto è stato cosi: tante ballerine alle prime armi, volenterose ma ancora acerbe.
Per cui il ballo è stato quello che è: tante tande ma soddisfazioni pochine.

venerdì 13 febbraio 2015

Cinema: Turner


Mike Leigh cesella con finezza, di scena in scena, una visione del mestiere artistico
Gabriele Niola      *  *  *  -  -

J. M. W. Turner, pittore paesaggista, ormai adulto nei primi dell'800 vede morire il padre cui era molto affezionato e rimane a vivere con la donna di servizio che lo aiuta nel lavoro. Amante delle donne mature ma poco incline a stabilire rapporti affettivi stabili o a impegnarsi in relazioni durature, viaggia molto per esporre e per ammirare quello che poi dipingerà.
C'è più d'un riferimento in Mr. Turner al fatto che il pittore protagonista della storia sia probabilmente uno dei più grandi paesaggisti di sempre, un artista determinante nello sviluppo di quel particolare tipo di pittura. Turner è in sostanza un colosso dell'arte visiva e della sua vita Mike Leigh decide di affrontare unicamente l'ultimo periodo, quello in cui era già sufficientemente affermato da vivere il proprio status di pittore noto (con tutti i favori e i problemi che questo comporta).
Sebbene la scansione del film non si distacchi in nulla dai canoni del genere biografico (con poco riguardo per ciò che rendeva straordinario il lavoro del protagonista e molta attenzione alla sua vita privata), Mike Leigh cerca lo stesso di cesellare con finezza, di scena in scena, una visione del mestiere artistico. In Mr. Turner infatti ogni evento della vita privata sembra non essere capace di rimanere confinato in essa e getta più d'una luce riflessa sulla professione, si intavola così un discorso estremamente complicato, e purtroppo non sempre risolto con efficacia, sull'istinto vitale insito nell'arte.
Inaffidabile, umorale, ombroso, orso ed egoista con Turner si empatizza non senza un certo grado di senso di colpa e principalmente attraverso quella postura da mr. Hyde messa in scena da Timothy Spall, immensa antenna catalizzatrice di tutto ciò che avviene, una spugna che tutto prende e pochissimo rilascia così che ad ogni suo grugnito scatti una piccola risata. In tal senso non manca di barare Mike Leigh, di passare cioè per un po' d'ironia così da donare simpatia ad un personaggio apertamente antipatico, riuscendo a non tradire la realtà storica e contemporaneamente guadagnare il consenso dello spettatore per giungere al suo obiettivo: la fascinazione della battaglia umana per la conquista dell'arte, vista senza sconti e senza eufemismi.
Sono infatti quelle relative all'instancabile volontà di disegnare di Turner le parti migliori di un film altrimenti meno riuscito degli ultimi straordinari ritratti umani cui il regista inglese ci ha abituato. Ma se quella dell'artista come macchina affamata di creatività è una visione abbastanza abusata, Leigh cerca di comunicare con ancor più minuzia una forma particolare di bramosia del "vedere" come l'inizio di tutto. Il suo Turner è disposto ad ogni cosa per "vedere", in un'epoca in cui poter ammirare un paesaggio particolare o un evento raro erano occasioni imperdibili per un occhio raffinato. In delicatissimo equilibrio tra realismo ed espressionismo, tra rappresentazione del mondo per com'è e per come lo vede il Turner visto da Leigh, con facile parallelismo, diventa il primo (inconsapevole) cineasta della storia, non tanto per i suoi quadri ma per l'atteggiamento nei confronti del'arte. Attraverso le sue alterne fortune dunque Leigh cerca di mettere in tempesta le acque che solitamente vengono rappresentate come calme. Non esalta l'artista ma, specie nella doppia chiusa, ne sottolinea l'incoerenza e la colpevole mancanza di qualsiasi pianificazione, sostituita da un famelico desiderio di "fare" dopo aver "visto", senza logica (immancabili le beffe della critica) ma con solo istinto.

Film noioso. Una specie di Fiction sulla vita del pittore, ma senza emozioni

domenica 8 febbraio 2015

Milonga: Pratica del Domingo ARCI Bellezza

Quando vado io cìè sempre un gran casino. Dicono che non sia sempre cosi, ma non ho prove.
Avevo tanta voglia di ballare per cui non sono andatoa tanto per il sottile. Ho iniziato bene ma sono anche incappato in un paio di principianti,
Ma mi sono sfogato e divertito, quindi tutto bene,

sabato 7 febbraio 2015

Fotografia: Arthur Elgort. The Big Picture




La Galleria Carla Sozzani, a distanza di 20 anni dalla prima mostra, dedica a Arthur Elgort un’antologica dal titolo “Arthur Elgort: The Big Picture” che raccoglie cinque decadi del suo lavoro e comprende molti originali “snapshots”, un nuovo stile che il fotografo americano introdusse nella fotografia di moda.
Nel 1971, quando Elgort produsse il suo primo servizio su British Vogue, fu davvero una svolta sensazionale nel mondo della fotografia di moda. Una ventata di aria fresca con le modelle che si muovevano in assoluta libertà, luci naturali e un pizzico di influenza del reportage.
Le sue giovani e belle modelle erano pochissimo truccate, si comportavano con vivacità e semplicità di fronte alla macchina fotografia e con naturalezza negli spazi aperti: strade urbane, piscine e spiagge, luoghi tipici che definirono il suo stile.
Elgort divenne ben presto uno dei più ammirati ed imitati dai fotografi. La sfida che lanciò con le sue innovative fotografie cambiò l’industria della moda. Le sue idee su ciò che una fotografia di moda fosse, schiuse altre prospettive su come avrebbe potuto essere la fotografia di moda per le generazioni future.
Arthur Elgort pensa che il suo stile spontaneo derivi dalla passione di una vita per la musica e la danza, in particolare per il jazz e il balletto degli anni Trenta e Quaranta. “Alcune delle mie migliori immagini le ho riprese quando non stavo “lavorando”: le modelle che si stavano preparando, la gente nelle strade. Fugaci momenti fra le riprese. Quello è il momento quando si può catturare la gente come davvero è e vedere cosa si cela nelle persone. In quei momenti veri non si può imbrogliare.” Dichiara.
In mostra anche circa ottanta icone della fotografia di moda che Elgort riprese a giovani donne che saranno la prima generazione di supermodelle: Naomi Campbell, Kate Moss, Christy Turlington, Patti Hansen, Iman, Linda Evangelista e Karlie Kloss.

Arthur Elgort è nato nel 1940 a New York dove è cresciuto. Ha studiato pittura all’Hunter College e, quindi, si è interessato di fotografia. Nel corso della sua lunga carriera ha realizzato le più importante campagne pubblicitarie, anche per le case di moda Chanel, Valentino, Yves Saint Laurent. Ha collaborato, e continua a collaborare, per Vogue Francia, Italia, Gran Bretagna e Stati Uniti.
Il suo lavoro è parte delle collezioni permanenti dell’International Center of Photography di New York, del Victoria and Albert Museum di Londra e del Museum of Fine Arts di Houston, Texas.
Elgort ha anche diretto il film Texas Tenor: The Illinois Jacquet Story (1992), e il documentario Colorado Cowboy (1993) che racconta la storia del leggendario cowboy Bruce Ford. Con questo documentario ha vinto il premio Best Cinematography at the Sundance Film Festival in 1994.
Nel 2011, Elgort ha ricevuto il Board of Directors’ Special Tribute Award del Council of Fashion Designers of America. Nel 2014, ha pubblicato con l'editore Steidl l’esaustiva monografia “Arthur Elgort: The Big Picture”

venerdì 6 febbraio 2015

Teatro: Lehmann Trilogy - 2° Parte


La saga dei fratelli Lehman è al tempo stesso uno squarcio di sogno americano: il Paese che tutto dà a chiunque dia prova di talento, inventiva e abnegazione, in una manciata di secondi rovescia fortune e destini.
I Lehman correranno più volte il rischio di cadere, con la Guerra di Secessione, i due conflitti mondiali, la crisi del 1929, ma sempre sapranno risollevarsi. Tranne l’ultima volta: il 15 settembre 2008 Lehman Brothers diventa il più grande fallimento nella storia delle bancarotte mondiali.


D'intesa con l'autore, Luca Ronconi ha suddiviso i tre capitoli della Trilogia (Tre fratelli, Padri e figlie e L'immortale) in due parti autonome.
La seconda parte si apre nella New York degli anni Dieci del Novecento. I fondatori della dinastia Henry, Emanuel e Mayer, sono morti, al loro posto ci sono i figli: Philip (figlio di Emanuel) vuole speculare in Borsa, mentre Herbert (figlio di Mayer) non si fida. Quest’ultimo diventa Governatore di New York. A settant’anni Philip Lehman “lascia”, ma non definitivamente: non si fida del figlio Robert (Bobbie), laureato in economia a Yale. La Lehman Brother passa attraverso la Prima Guerra mondiale, la crisi del 1929, la Seconda Guerra mondiale, avventurandosi in nuovi e sempre più spericolati investimenti (telefonia, computers, persino la bomba atomica) espandendo i propri interessi in tutto il mondo. Alla morte di Bobbie Lehman nel 1969, la società è affidata a Pete Peterson, estromesso da Lewis Glucksman, che condurrà la banca ad una prima crisi, negli anni Ottanta. Dopo la ripresa, il nuovo CEO, Dick Fuld jr,  nulla potrà di fronte alla catastrofe dei mutui subprime: il 15 settembre 2008, Lehman Brothers dichiara fallimento.

“Di questo testo - sottolinea Luca Ronconi- mi ha subito appassionato la varietà dei registri linguistici: il saggio, il romanzo, il racconto onirico si alternano seguendo l’impaginazione di una sceneggiatura cinematografica. Senza alcun cedimento a una banale contemporaneità che sa di cronaca, Massini, come Edward Bond di cui avevo messo in scena La compagnia degli uomini, non intende presentare al pubblico una verità preconfezionata, piuttosto indirizzarlo verso un percorso di conoscenza. Quella di Lehman Trilogy è una ‘drammaturgia adulta’, che, svincolandosi da una narrativa tradizionale e da qualsiasi valutazione morale, ci consegna una chiave per aprire una porta sull’episodio che, volenti o nolenti, ha profondamente influenzato le vite di tutti noi”.
“Nel raccontare il destino dei fratelli Lehman”, aggiunge Ronconi, “Massini sottolinea l’appartenenza religiosa della famiglia all’ortodossia ebraica e dissemina nell’arco di tutta la narrazione continui riferimenti alla Bibbia; quell’appartenenza verrà a un dato momento ad appannarsi, sostituita dall’adesione ad un nuovo culto che ha i propri riti e le proprie formule, il capitalismo. Dal Pasticciaccio, ai Karamazov, al recente Pornografia, per citarne solo alcuni, amo portare in scena testi in cui gli attori, seguendo il testo, siano guidati ad alternare prima e terza persona, in una continua osmosi tra ‘dentro’ e ‘fuori’, tra onniscienza del narratore e identità del personaggio”.

“La storia Lehman - spiega Stefano Massini- non vuol emergere come la storia di una banca, non ne è la celebrazione né la condanna. Resterà deluso chi cercasse nel mio testo una Norimberga del capitalismo. Troverà al suo posto la cronistoria dei successi e degli insuccessi di tre generazioni, alle prese con gli usi e costumi di una società in rapida trasformazione, innamorata ora del cotone, ora del caffè, poi delle ferrovie, poi del petrolio, e ancora delle sigarette, dei televisori, del cinema, delle automobili, degli aerei, dei supermercati, dell’alcol e perfino della bomba atomica, senza escludere quella sete forsennata di guadagni facili che ha soffiato vento in poppa ai traders più spregiudicati. C’è un legame indissolubile fra noi e la finanza, un legame talmente stretto che suona ipocrita il fingersi teneri agnelli sacrificati dai sacerdoti di Wall Street: la parabola dei tre fratelli Henry, Mayer ed Emanuel con i loro discendenti descrive il vincolo di sangue anticamente creato fra il futuro sognato dagli uomini e le soluzioni dei finanzieri per rendere possibile quel futuro. Tuttora”.

Visto con Matteo, che in questo momento è molto preso dalla finanza.
Gia questo vale il viaggio.
Lo spettacolo è peraltro interessante e bene recitato. Due ore che passano in fretta, presi da quello che succede.

mercoledì 4 febbraio 2015

Teatro: Ballata di Uomini e Cani, con Marco Paolini



“Ballata di uomini e cani è un tributo a Jack London. A lui devo una parte del mio immaginario di ragazzo, ma Jack non è uno scrittore per ragazzi. È un testimone, si schiera, si compromette, quello che fa entra in contraddittorio con quello che pensa”. Così Marco Paolini spiega la scelta di mettere in scena uno spettacolo solo all’apparenza lontano dal teatro civile cui ci ha abituato. In realtà si tratta sempre di un viaggio nella natura umana che parla di avventura e libertà, di paesaggi selvaggi, di vita e di morte. Un viaggio che si può definire musicale: le ballate composte per lo spettacolo non accompagnano il racconto, lo completano, diventando parte integrante della narrazione.

Ballata di uomini e cani
dedicata a Jack London
di e con Marco Paolini
musiche originali composte ed eseguite da Lorenzo Monguzzi
con Angelo Baselli e Gianluca Casadei

Bellissimo spettacolo, Paolini è sempre magnifico da ascoltare

lunedì 2 febbraio 2015

Milonga: Biko

Nnon troppa genete, non troppo poca. Che altro dire del biko, sempre piacevole. Stasera niente di particolarmente particolare da segnalare.