sabato 3 settembre 2016
MITO: Teatro alla Scala
La Scala è sempre una grande gioia. In un palco stavolta, ad ascoltare una grande orchestra.
Bellissimo, che altro dire...
Bellissimo, che altro dire...
DEBUSSY RECASTED
Quando Debussy, nel 1912, compose il secondo libro dei Préludes per pianoforte, non immaginava che, cent’anni dopo, Nikos Christodoulou li avrebbe trascritti per orchestra. Qui se ne ascoltano cinque, accanto a La mer e alla Seconda sinfonia di Rachmaninov: sarà la prima volta che accade.
Claude Debussy, Nikos Christodoulou
Cinque Préludes dal Secondo Libro, trascrizione per orchestra
PRIMA ESECUZIONE ITALIANA
Claude Debussy
La Mer, tre schizzi sinfonici
Sergej Rachmaninov
Sinfonia n. 2 in mi minore op. 27
Gianandrea Noseda, direttore
Il concerto è preceduto da una breve introduzione di Gaia Varon
Il concerto è accompagnato dalla proiezione di una guida all'ascolto
domenica 24 luglio 2016
Mostra: Neo Preistoria
Mostra veramente molto interessante e ben realizzata. Un percorso nell'evoluzione dell'uomo e dei suoi artefatti.
La mostra percorre il lungo cammino che collega gli strumenti dell’antica preistoria alle moderne nano-tecnologie; un percorso sospinto dall’impulso di “100 verbi” e “100 strumenti” che come flussi di energia vitale e misteriosa, guidano lo spettatore attraverso le tenebre della storia e di uno spazio infinito.
In occasione della XXI Esposizione Internazionale, la Triennale di Milano presenta la mostra dal titolo Neo Preistoria – 100 Verbi.
Il pensiero artificiale segna oggi l’inizio di una nuova antropologia, una nuova fase dell’evoluzione umana di cui, come nell’antica preistoria, non conosciamo il destino complessivo ma soltanto i singoli salti nel buio.
Questa perdita di direzione accompagna ancora oggi l’estrema vitalità e fertilità del pensiero e della tecnologia umana, che caratterizza sia gli strumenti di morte che l’estensione della vita verso un futuro tutto da esplorare.
La mostra non si propone dunque di indagare il Futuro, ma piuttosto di guardare il Presente e le sue componenti geniali e pericolose.
La mostra percorre il lungo cammino che collega gli strumenti dell’antica preistoria alle moderne nano-tecnologie; un percorso sospinto dall’impulso di “100 verbi” e “100 strumenti” che come flussi di energia vitale e misteriosa, guidano lo spettatore attraverso le tenebre della storia e di uno spazio infinito. Fino a giungere alle attuali frontiere della ricerca scientifica, volta a espandere la sopravvivenza umana attraverso la produzione dei pezzi di ricambio del nostro organismo.
Il XXI secolo, ancora così poco esplorato, rappresenta in questo senso una nuova preistoria, quando il destino complessivo dell’umanità non aveva una direzione precisa e gli oggetti possedevano molti significati, dalla funzione pratica al valore rituale e magico.
Il pensiero artificiale segna oggi l’inizio di una nuova antropologia, una nuova fase dell’evoluzione umana di cui, come nell’antica preistoria, non conosciamo il destino complessivo ma soltanto i singoli salti nel buio.
Questa perdita di direzione accompagna ancora oggi l’estrema vitalità e fertilità del pensiero e della tecnologia umana, che caratterizza sia gli strumenti di morte che l’estensione della vita verso un futuro tutto da esplorare.
La mostra non si propone dunque di indagare il Futuro, ma piuttosto di guardare il Presente e le sue componenti geniali e pericolose.
Andrea Branzi
sabato 23 luglio 2016
Milonga: Pensalobien
Ho voluto vedere come era un sabato sera di mezza estate. E devo dire di non essere rimasto deluso. Non troppa gente, una dj un po strana, che non metteva pause fra i tanghi e inseriva cortine lunghissime (pare che cosi si faccia a Buenos Aires), tanghi un po troppo ritmati per i miei gusti e per quelli delle ballerine che ho invitato.
Nonostante ben tre rifiuti ricevuti (penso un record personale) ho ballato tanto e direi con soddisfazione, specie con Antonella (?) l'assistente di Ferrante e con l'ultima ballerina di cui non ho chiesto il nome.
Da rifare, specie se Zotto non ri riavviva un po
giovedì 21 luglio 2016
martedì 12 luglio 2016
domenica 10 luglio 2016
Cinema: Now you see me 2
Film molto più parlato del primo, con molti meno trucchi magici, quindi alla fine meno avvincente.
cNow You See Me 2 - I maghi del crimine
Una buona idea iniziale per un film verbosissimo che sciupa da sé il suo potenziale e indubbio fascino.
consigliato: nì
Regia di Jon Chu. Con Dave Franco, Mark Ruffalo, Woody Harrelson, Jesse Eisenberg, Lizzy Caplan. continua» Genere Azione, produzione USA, 2016. Durata 115 minuti circa. Da mercoledì 8 giugno 2016 al cinema e in programmazione in 43 sale cinematografiche.
Ricercati dall'FBI, i Cavalieri - Daniel Atlas, Merritt McKinney, il redivivo Jack Wilder e la nuova arrivata, Lula May - scalpitano nella clandestinità, impazienti di poter di nuovo calcare un palcoscenico e ammaliare un vasto pubblico. L'occasione si offre al momento di denunciare il corrotto magnate della tecnologia Owen Case, ma si rivela una trappola, che li trasferisce come per "magia" a Macao, al soldo del giovane e facoltoso ex socio di Case, Walter Mabry, per recuperare un chip pericolosamente potente e guadagnare la promessa libertà. Ma dietro la tenda c'è sempre una sorpresa e dietro le sbarre c'è ancora Thaddeus Bradley, sebbene per poco...
cNow You See Me 2 - I maghi del crimine
Una buona idea iniziale per un film verbosissimo che sciupa da sé il suo potenziale e indubbio fascino.
consigliato: nì
Regia di Jon Chu. Con Dave Franco, Mark Ruffalo, Woody Harrelson, Jesse Eisenberg, Lizzy Caplan. continua» Genere Azione, produzione USA, 2016. Durata 115 minuti circa. Da mercoledì 8 giugno 2016 al cinema e in programmazione in 43 sale cinematografiche.
Ricercati dall'FBI, i Cavalieri - Daniel Atlas, Merritt McKinney, il redivivo Jack Wilder e la nuova arrivata, Lula May - scalpitano nella clandestinità, impazienti di poter di nuovo calcare un palcoscenico e ammaliare un vasto pubblico. L'occasione si offre al momento di denunciare il corrotto magnate della tecnologia Owen Case, ma si rivela una trappola, che li trasferisce come per "magia" a Macao, al soldo del giovane e facoltoso ex socio di Case, Walter Mabry, per recuperare un chip pericolosamente potente e guadagnare la promessa libertà. Ma dietro la tenda c'è sempre una sorpresa e dietro le sbarre c'è ancora Thaddeus Bradley, sebbene per poco...
sabato 9 luglio 2016
Mostra: William Klein
Mostra divisa per città, oggetto dei reportage del fotografo. Alcuni splendidi, come Roma o Tokio, alcuni francamente meno interessanti. Non una delle migliori mostre viste.
WILLIAM KLEIN
Il mondo a modo suo
dal 17 giugno all’11 settembre 2016
Dopo la retrospettiva della Tate di Londra di qualche anno fa, William Klein arriva a Milano con una mostra retrospettiva ideata e curata da Alessandra Mauro in un progetto appositamente pensato per Palazzo della Ragione.
William Klein è nato a New York nel 1928 da una famiglia ebrea di origine ungherese, all’età di 18 anni passa due anni nell’esercito d’occupazione e si stabilisce poi a Parigi per diventare pittore. Nel 1954 torna a New York e lavora a una sorta di diario fotografico che uscirà due anni dopo in un volume disegnato dallo stesso autore, Life is Good & Good for You in New York, che gli varrà il premio Nadar. Raggiunge Fellini a Roma per fargli da assistente. Alla fine degli anni ’50 si avvicina al cinema al quale si dedicherà in maniera esclusiva per alcuni anni realizzando diversi film. Negli anni ’80 torna alla fotografia e pubblica numerosi libri. Il suo lavoro viene esposto in tutto il mondo e riceve molti premi e riconoscimenti. Innumerevoli i lavori, i libri, i progetti realizzati da questo poliedrico e instancabile artista. William Klein ha pubblicato, editi da Contrasto, i seguenti volumi: Retrospettiva (2002), Parigi+Klein (2006), Contacts (2008), Roma+Klein (2009), Brooklyn (2014).
venerdì 8 luglio 2016
Milonga: Milonga por Todos da Zotto
Cambia il nome ma rimane tutto uguale.
Non troppa gente, problemi di temperatura, musica bella ma non eccezionale.
Ballerine piacevoli, fra cui la signora svizzera che ogni tanto appare.
Continuo a non essere soddisfatto del mio ballo, non so, forse è solo un mio problema. Tanta gente se ne fa mooolti di meno..
Non troppa gente, problemi di temperatura, musica bella ma non eccezionale.
Ballerine piacevoli, fra cui la signora svizzera che ogni tanto appare.
Continuo a non essere soddisfatto del mio ballo, non so, forse è solo un mio problema. Tanta gente se ne fa mooolti di meno..
Concerto: GOGO Penguin
Concerto inaspettato e veramente interessante. Il batterista spicca per inventiva ed origininalità dei suoni.
L'ambiente all'aperto della Triennale pieno sia sulle panche che sul prato era una cornice ideale, che ha deliziato anche il gruppo.
Bellissimo
http://www.triennale.org/evento/open-night-5/
L'ambiente all'aperto della Triennale pieno sia sulle panche che sul prato era una cornice ideale, che ha deliziato anche il gruppo.
Bellissimo
http://www.triennale.org/evento/open-night-5/
OPEN NIGHT
GOGO PENGUIN
VEN, 8 LUG
21.00
Il trio piano-basso-batteria di Manchester (Chris Illingworth, Nick Blacka e Rob Turne) propone un jazz moderno e contaminato da ritmi tipici della musica elettronica.
Orari
21.00
21.00
Dove
Giardino della Triennale
Giardino della Triennale
CONDIVIDI
Il sound dei GoGo Penguin infatti attinge da molti settori della musica elettronica contemporanea. È stato descritto come “elettronica acustica”, un termine che riassume perfettamente il loro modus operandi. “Molti dei pezzi di questo album sono iniziati come composizioni elettroniche che ho creato con sequencer come Logic o Ableton”, dice il batterista Turner, “li ho poi proposti alla band trovando il modo di riprodurli acusticamente”. Le influenze apparentemente disparate di elettronica, jazz e musica classica nel DNA musicale dei GoGo Penguin risaltano in un suono immediatamente riconoscibile e convincente. Man Made Object è il loro ultimo lavoro uscito lo scorso febbraio 2016.
venerdì 17 giugno 2016
Milonga: Gotan Night da Zotto
Ci avevo pensato il giorno prima che da tanto tempo non si faceva una Gotan night... ed eccomi accontentato.
Ho ballato fino a sfinirmo per approfittare: musica sempre bella, talvolta veramente impegnativa da ballare.
Trovato partner per la maggior parte valide e divertenti, fra cui la professoressa che non incontravo da un pò.
Finito in bellezza con una nuova ballerina, Silvia. con cui mi sono trovato molto bene.
Bellissima serata
Ho ballato fino a sfinirmo per approfittare: musica sempre bella, talvolta veramente impegnativa da ballare.
Trovato partner per la maggior parte valide e divertenti, fra cui la professoressa che non incontravo da un pò.
Finito in bellezza con una nuova ballerina, Silvia. con cui mi sono trovato molto bene.
Bellissima serata
Balletto:L'eco dell'acqua - Lost Shadows - #hybrid - BLISS
Serata molto interessante, balletti non tutti sullo stesso livello. #Hubrid bellissimo, Bliss magico (ma è la musica che seduce di più), gli altri due cosi cosi
Quinta stagione per la collaborazione artistica tra Aterballetto e Piccolo Teatro, ormai una vera e propria ‘residenza’. Due serate, due programmi suddivisi fra sei coreografi nel segno dei grandi valori assodati e del rinnovamento.
In programma per questo primo appuntamento quattro novità firmate da Philippe Kratz, L'eco dell'acqua e #hybrid, Eugenio Scigliano, Lost Shadows e Johan Inger, recente vincitore del Premio Benois de la Danse come migliore coreografo, Bliss.
Un programma che ben sintetizza il percorso intrapreso dalla direttrice artistica Cristina Bozzolini con l’intento di rinnovare il repertorio della compagnia, affiancando autori internazionali a nuovi talenti italiani.
Il primo brano della serata è L'eco dell'acqua di Philippe Kratz, ispirato alla poesia di Goethe Canto degli spiriti sulle acque sul tema del destino: come l'acqua, anche l'anima dell'uomo viene dal cielo e al cielo ritorna, dopo un passaggio sulla terra.
Segue il passo a due Lost Shadows di Eugenio Scigliano "ombre di un ricordo di cui si sono perse le tracce"... sulle musiche di Franz Schubert.
La danza sulle punte si intreccia alla street dance in #hybrid, secondo brano della serata firmato Philippe Kratz. Un passo a due sulle musiche di Romare, mescolanza di suoni afro-americani che accompagna e avvolge stili di danza differenti, pensati spesso come opposti che si fondono in un armonico finale.
La serata si chiude con il nuovissimo Bliss: dopo Andonis Foniadakis, quest’anno Aterballetto ha affidato a Johan Inger il compito di creare una nuova coreografia per la compagnia, con la quale aveva già lavorato per la ripresa di Rain Dogs, visto al Teatro Strehler nel 2014. Bliss si ispira al Köln Concert di Keith Jarrett, improvvisazione jazz solista eseguita all'Opera di Colonia nel 1975. Considerato il più famoso album di jazz solo "ha inspirato e toccato milioni di persone - ha detto Inger - grazie al suo perfetto tempismo nell'attirare una generazione che si muoveva da una parte all'altra della propria vita".
Recite concluse
locandina
Piccolo Teatro Strehler
dal 14 al 17 giugno 2016
martedì e giovedì ore 19.30; mercoledì e venerdì ore 20.30
Aterballetto – Fondazione Nazionale della Danza
L'eco dell'acqua
coreografia e ideazione scene Philippe Kratz
musiche Federico Albanese, Jonny Greenwood, Howling, Arvo Pärt, Sufjan Stevens, The Haxan Clock
sound design OOOPStudio
costumi Costanza Maramotti e Philippe Kratz
luci Carlo Cerri
realizzazione costumi Sartoria Aterballetto – Francesca Messori e Nuvia Valestri
con Noemi Arcangeli, Saul Daniele Ardillo, Damiano Artale, Hektor Budlla, Alessandro Calvani, Martina Forioso, Marietta Kro, Ina Lesnakowski, Valerio Longo, Ivana Mastroviti, Riccardo Occhilupo, Giulio Pighini, Roberto Tedesco, Lucia Vergnano, Serena Vinzio, Chiara Viscido
durata: 30 minuti
INTERVALLO (15 minuti)
Lost Shadows
coreografia Eugenio Scigliano
musica Franz Schubert
sound design OOOPStudio
costumi Kristopher Millar & Lois Swandale
luci Carlo Cerri
realizzazione costumi Sartoria Aterballetto – Francesca Messori e Nuvia Valestri
con Serena Vinzio, Roberto Tedesco (14 e 16 giugno)
Martina Forioso, Damiano Artale (15 e 17 giugno)
durata: 12 minuti
#hybrid
coreografia e ideazione costumi Philippe Kratz
musica Romare
luci Carlo Cerri
realizzazione costumi Sartoria Aterballetto – Francesca Messori e Nuvia Valestri
con Martina Forioso, Valerio Longo (14 e 16 giugno)
Noemi Arcangeli, Hektor Budlla (15 e 17 giugno)
durata: 7 minuti
INTERVALLO (15 minuti)
Bliss
coreografia Johan Inger
musica Keith Jarrett
scene Johan Inger
costumi Johan Inger e Francesca Messori
luci Peter Lundin
assistente alla coreografia Yvan Dubreuil
realizzazione costumi Sartoria Aterballetto – Francesca Messori e Debora Baudoni
con Saul Daniele Ardillo, Damiano Artale, Martina Forioso, Philippe Kratz, Marietta Kro, Ivana Mastroviti, Roberto Tedesco, Serena Vinzio (14, 15, 17 giugno)
Noemi Arcangeli, Hektor Budlla, Alessandro Calvani, Ina Lesnakowski, Valerio Longo, Giulio Pighini, Lucia Vergnano, Chiara Viscido (16 giugno)
durata: 27 minuti
Quinta stagione per la collaborazione artistica tra Aterballetto e Piccolo Teatro, ormai una vera e propria ‘residenza’. Due serate, due programmi suddivisi fra sei coreografi nel segno dei grandi valori assodati e del rinnovamento.
In programma per questo primo appuntamento quattro novità firmate da Philippe Kratz, L'eco dell'acqua e #hybrid, Eugenio Scigliano, Lost Shadows e Johan Inger, recente vincitore del Premio Benois de la Danse come migliore coreografo, Bliss.
Un programma che ben sintetizza il percorso intrapreso dalla direttrice artistica Cristina Bozzolini con l’intento di rinnovare il repertorio della compagnia, affiancando autori internazionali a nuovi talenti italiani.
Il primo brano della serata è L'eco dell'acqua di Philippe Kratz, ispirato alla poesia di Goethe Canto degli spiriti sulle acque sul tema del destino: come l'acqua, anche l'anima dell'uomo viene dal cielo e al cielo ritorna, dopo un passaggio sulla terra.
Segue il passo a due Lost Shadows di Eugenio Scigliano "ombre di un ricordo di cui si sono perse le tracce"... sulle musiche di Franz Schubert.
La danza sulle punte si intreccia alla street dance in #hybrid, secondo brano della serata firmato Philippe Kratz. Un passo a due sulle musiche di Romare, mescolanza di suoni afro-americani che accompagna e avvolge stili di danza differenti, pensati spesso come opposti che si fondono in un armonico finale.
La serata si chiude con il nuovissimo Bliss: dopo Andonis Foniadakis, quest’anno Aterballetto ha affidato a Johan Inger il compito di creare una nuova coreografia per la compagnia, con la quale aveva già lavorato per la ripresa di Rain Dogs, visto al Teatro Strehler nel 2014. Bliss si ispira al Köln Concert di Keith Jarrett, improvvisazione jazz solista eseguita all'Opera di Colonia nel 1975. Considerato il più famoso album di jazz solo "ha inspirato e toccato milioni di persone - ha detto Inger - grazie al suo perfetto tempismo nell'attirare una generazione che si muoveva da una parte all'altra della propria vita".
Recite concluse
locandina
Piccolo Teatro Strehler
dal 14 al 17 giugno 2016
martedì e giovedì ore 19.30; mercoledì e venerdì ore 20.30
Aterballetto – Fondazione Nazionale della Danza
L'eco dell'acqua
coreografia e ideazione scene Philippe Kratz
musiche Federico Albanese, Jonny Greenwood, Howling, Arvo Pärt, Sufjan Stevens, The Haxan Clock
sound design OOOPStudio
costumi Costanza Maramotti e Philippe Kratz
luci Carlo Cerri
realizzazione costumi Sartoria Aterballetto – Francesca Messori e Nuvia Valestri
con Noemi Arcangeli, Saul Daniele Ardillo, Damiano Artale, Hektor Budlla, Alessandro Calvani, Martina Forioso, Marietta Kro, Ina Lesnakowski, Valerio Longo, Ivana Mastroviti, Riccardo Occhilupo, Giulio Pighini, Roberto Tedesco, Lucia Vergnano, Serena Vinzio, Chiara Viscido
durata: 30 minuti
INTERVALLO (15 minuti)
Lost Shadows
coreografia Eugenio Scigliano
musica Franz Schubert
sound design OOOPStudio
costumi Kristopher Millar & Lois Swandale
luci Carlo Cerri
realizzazione costumi Sartoria Aterballetto – Francesca Messori e Nuvia Valestri
con Serena Vinzio, Roberto Tedesco (14 e 16 giugno)
Martina Forioso, Damiano Artale (15 e 17 giugno)
durata: 12 minuti
#hybrid
coreografia e ideazione costumi Philippe Kratz
musica Romare
luci Carlo Cerri
realizzazione costumi Sartoria Aterballetto – Francesca Messori e Nuvia Valestri
con Martina Forioso, Valerio Longo (14 e 16 giugno)
Noemi Arcangeli, Hektor Budlla (15 e 17 giugno)
durata: 7 minuti
INTERVALLO (15 minuti)
Bliss
coreografia Johan Inger
musica Keith Jarrett
scene Johan Inger
costumi Johan Inger e Francesca Messori
luci Peter Lundin
assistente alla coreografia Yvan Dubreuil
realizzazione costumi Sartoria Aterballetto – Francesca Messori e Debora Baudoni
con Saul Daniele Ardillo, Damiano Artale, Martina Forioso, Philippe Kratz, Marietta Kro, Ivana Mastroviti, Roberto Tedesco, Serena Vinzio (14, 15, 17 giugno)
Noemi Arcangeli, Hektor Budlla, Alessandro Calvani, Ina Lesnakowski, Valerio Longo, Giulio Pighini, Lucia Vergnano, Chiara Viscido (16 giugno)
durata: 27 minuti
domenica 5 giugno 2016
Cinema: Warcraft - l'inizio
Filmone Fantasy ma ben fatto, con una trama non banale e tonnellate di effetti ben realizzati. Divertente.
Con Filo
Primo capitolo di una saga fantasy potentemente allegorica. Non c'è spazio per le sfumature ma il cast è indovinato e il ritmo sostenuto.
Marianna Cappi * * * - -
Il regno di Azeroth vive in pace da anni, sotto il governo benevolo dell'umano Re Llane e di sua moglie - sorella del più fido guerriero del re, Lothar - e sotto la protezione del concilio del Kirin Tor e di Medivh, Guardiano del regno e suo mago più potente. Ora, però, Azeroth è pericolosamente minacciato dall'invasione, attraverso un oscuro portale, degli orchi di Draenor, brutali creature nate per combattere e comandate dal crudele sciamano Gul'dan. Tra loro, solo Durotan, amato e rispettato leader del Clan dei Lupi Bianchi, è disposto a mettersi contro il tiranno per porre fine al suo delirio di distruzione. Ad ogni costo. Anche se per farlo dovrà cercare l'alleanza degli uomini.
I numeri degli umani che, dal momento del lancio, hanno comprato il software e aperto un account per entrare nel "World of Warcraft", nelle sue prime e successive uscite, è strabiliante: una moltitudine difficile da visualizzare, esattamente come l'orda di orchi del film, e un fenomeno con radici multiple, legato a sua volta ad un universo di pensiero di diviso in due e zeppo di pregiudizi. Chi sono gli utenti di Warcraft, un'orda di sociopatici frustrati o un'alleanza di creativi, interpreti sani delle opportunità della globalizzazione digitale? Il film giunge come risposta universale: nel buio della sala si potranno sedere gli uni e gli altri, spettatori di ogni età, giocatori virtuali e fini biblisti (il figlio di Durotan viene messo dalla madre in una cesta e affidato alla corrente proprio come Mosè, in attesa di rivestire un ruolo fondamentale nel prossimo capitolo della saga), riuniti e pacificati nel nome del fantasy e della sua natura potentemente allegorica.
Gli orchi che si affollano all'entrata del portale magico per l'altro mondo, dopo che il loro è stato raso al suolo dalla politica di un dittatore assetato di sangue e potere, sono infatti personaggi dell'oggi e di sempre, che le magie grafiche della ILM e gli occhialini 3D permettono di vedere in più dimensioni: da lontano come branco indistinto, preda di tradizioni tribali e rumorose, e da vicino, come esseri più che mai antropomorfi, la cui etica è spesso più solida di quella degli uomini stessi.
Duncan Jones, specialista di storie a cavallo tra due mondi, si cimenta col kolossal con discreto successo, guardando decisamente più verso L'Ultimo dominatore dell'aria che alle creature di Peter Jackson e indovinando perfettamente il cast, a partire da Travis Fimmel nei panni di Lothar.
Una guerra senza buoni o cattivi, dove la violenza stessa è presupposto e condanna, ultima ratio e unica alternativa. Jones asseconda l'urgenza narrativa con grande senso del ritmo e fa del suo meglio per spianare un sentiero emotivo riconoscibile nel campo troppo vasto, monocromatico e caotico che è di sfondo agli Orchi. Non è che l'inizio della saga, dunque le priorità narrative sono molte e lo spazio per le sfumature risicato. Il limite maggiore del film sta infatti nella natura classica e prevedibile degli snodi di trama e si ha la sensazione di star assistendo a ciò che deve accadere prima che cominci il bello. Per fortuna, non tutto è rimandato: attorno ai personaggi del dolente Lothar, della mezzosangue Garona e di Khadgar, l'apprendista guardiano, prende rilievo un film nel film in grado di appassionarci quanto basta fino allo scadere del tempo.
venerdì 3 giugno 2016
Milonga: Che bailarin
Buona serata, ballato tanto con ballerine di livello vario ma con un paio di buone scoperte.
Nessuna ballerina conosciuta presente
Bella musica
Nessuna ballerina conosciuta presente
Bella musica
Cinema: Le confessioni
Film a tema, ma confuso e con una morale a volte incomprensibile ed a volte troppo facile e scontata.
Due ore di noia.
La visione metafisica e stupefatta di Andò è accompagnata da una narrazione luminosa e poetica
Paola Casella * * * - -
In un resort di lusso a bordo di una distesa d'acqua gli otto ministri economici delle grandi potenze soggiornano in attesa del summit che deciderà il futuro del mondo occidentale. Il consesso è presieduto da Daniel Roché, direttore del Fondo monetario internazionale, che ha invitato anche tre ospiti estranei al mondo dell'economia: una scrittrice di best seller per bambini, una rock star e un monaco, Roberto Salus. Roché chiede a Salus di ascoltare la sua confessione, e subito dopo viene trovato morto. Per i ministri le decisioni diventano tre: se quella morte sia un suicidio o un omicidio, come comunicarla al pubblico, e se si debba proseguire con la manovra che i ministri avrebbero dovuto varare nel corso del summit.
Dopo il successo di Viva la libertà, Roberto Andò affronta l'habitat politico-economico collocando i suoi personaggi nel pieno centro della scena, ma anche costringendoli in una sorta di laboratorio di osservazione suddiviso in loculi. Gli otto ministri formano il pantheon della contemporaneità occidentale, e come gli dèi dell'Olimpo sono fallibili e fallati, dunque le loro decisioni hanno spesso ricadute nefaste sui mortali. Quando il loro Zeus viene a mancare scoprono di non avere né una guida né una direzione, e ognuno comincia a reagire alla presenza del monaco portando alla coscienza (è il caso di dirlo) quel dubbio che ha fino a quel momento negato per obbedire alle leggi dell'economia e alla ragion di Stato, anche dopo che la sovranità nazionale si è arresa alla sottomissione al Fondo monetario. Siamo in zona Todo modo ma anche nella cornice dechirichiana de Il divo: pochi potenti in uno spazio asettico e confinato chiamati a confrontarsi con la dimensione etica del proprio ruolo, in un resort lussuoso e alienante che ricorda l'albergo termale di Youth, ma in cui il rapporto trompe l'oeil fra interni ed esterni - che è come dire fra interiorità ed esteriorità - richiama anche la residenza isolana de L'uomo nell'ombra.
La messinscena racconta una dimensione metafisica che a ben guardare non riguarda né la politica né l'economia e nemmeno la religione o l'arte, incarnate simbolicamente dai tre ospiti estranei al G8: il terreno di gioco è quello etico e Salus, diversamente dal Don Gaetano di Todo Modo, non ha i toni dell'inquisizione e non sollecita le confessioni di nessuno, ma si limita a raccogliere lo spaesamento di questi potenti del nulla, incapaci di portare i propri paesi fuori dalla crisi, o anche solo di confessare pubblicamente la propria inadeguatezza. Salus fa da cartina di tornasole dei dubbi e dei rimorsi di tutti, e i personaggi, né più né meno dei luoghi che attraversano, entrano ed escono da se stessi in un continuo gioco di sovrapposizioni e successivi disallineamenti fra (presa di) coscienza e reiterazione di un ruolo preconfezionato dalla Storia.
La regia di Andò è nitida e squadrata, racconta un mondo inerte persino nell'emergenza, muove le sue pedine in un tempo sospeso che diventa immateriale non perché "variabile dell'anima" ma perché non rivendicabile nemmeno da chi mette a punto gli orologi che segnano il ritmo di vita del resto del mondo. Salus, che si è congedato dall'universo materiale e dalla sua (presunta) codificazione matematica, diventa con la morte di Roché la "lettera d'addio" del capo degli dèi: una lettera da non aprire, impedendo a quel "grido dell'anima" che è ogni confessione il suo sfogo. Da un punto di vista cinematografico, l'immobilismo che Andò racconta rallenta la narrazione luminosa e poetica: chissà se lo spettatore medio saprà sincronizzare il proprio tempo interiore a quello dilatato della storia narrata.
Il cast di Le confessioni asseconda la visione metafisica e stupefatta del suo regista: Toni Servillo è un catalizzatore morale passivo e sibillino, Pierfrancesco Favino un ministro agìto dal suo ruolo e condannato ad essere estraneo a se stesso. Nessuno scambio verbale è spontaneo perché ogni frase è un testamento, ovvero una confessione. Ma per questi dèi condannati a governare il caos non c'è assoluzione, solo la possibilità di compiere una presa d'atto della propria intrinseca manchevolezza.
Due ore di noia.
La visione metafisica e stupefatta di Andò è accompagnata da una narrazione luminosa e poetica
Paola Casella * * * - -
In un resort di lusso a bordo di una distesa d'acqua gli otto ministri economici delle grandi potenze soggiornano in attesa del summit che deciderà il futuro del mondo occidentale. Il consesso è presieduto da Daniel Roché, direttore del Fondo monetario internazionale, che ha invitato anche tre ospiti estranei al mondo dell'economia: una scrittrice di best seller per bambini, una rock star e un monaco, Roberto Salus. Roché chiede a Salus di ascoltare la sua confessione, e subito dopo viene trovato morto. Per i ministri le decisioni diventano tre: se quella morte sia un suicidio o un omicidio, come comunicarla al pubblico, e se si debba proseguire con la manovra che i ministri avrebbero dovuto varare nel corso del summit.
Dopo il successo di Viva la libertà, Roberto Andò affronta l'habitat politico-economico collocando i suoi personaggi nel pieno centro della scena, ma anche costringendoli in una sorta di laboratorio di osservazione suddiviso in loculi. Gli otto ministri formano il pantheon della contemporaneità occidentale, e come gli dèi dell'Olimpo sono fallibili e fallati, dunque le loro decisioni hanno spesso ricadute nefaste sui mortali. Quando il loro Zeus viene a mancare scoprono di non avere né una guida né una direzione, e ognuno comincia a reagire alla presenza del monaco portando alla coscienza (è il caso di dirlo) quel dubbio che ha fino a quel momento negato per obbedire alle leggi dell'economia e alla ragion di Stato, anche dopo che la sovranità nazionale si è arresa alla sottomissione al Fondo monetario. Siamo in zona Todo modo ma anche nella cornice dechirichiana de Il divo: pochi potenti in uno spazio asettico e confinato chiamati a confrontarsi con la dimensione etica del proprio ruolo, in un resort lussuoso e alienante che ricorda l'albergo termale di Youth, ma in cui il rapporto trompe l'oeil fra interni ed esterni - che è come dire fra interiorità ed esteriorità - richiama anche la residenza isolana de L'uomo nell'ombra.
La messinscena racconta una dimensione metafisica che a ben guardare non riguarda né la politica né l'economia e nemmeno la religione o l'arte, incarnate simbolicamente dai tre ospiti estranei al G8: il terreno di gioco è quello etico e Salus, diversamente dal Don Gaetano di Todo Modo, non ha i toni dell'inquisizione e non sollecita le confessioni di nessuno, ma si limita a raccogliere lo spaesamento di questi potenti del nulla, incapaci di portare i propri paesi fuori dalla crisi, o anche solo di confessare pubblicamente la propria inadeguatezza. Salus fa da cartina di tornasole dei dubbi e dei rimorsi di tutti, e i personaggi, né più né meno dei luoghi che attraversano, entrano ed escono da se stessi in un continuo gioco di sovrapposizioni e successivi disallineamenti fra (presa di) coscienza e reiterazione di un ruolo preconfezionato dalla Storia.
La regia di Andò è nitida e squadrata, racconta un mondo inerte persino nell'emergenza, muove le sue pedine in un tempo sospeso che diventa immateriale non perché "variabile dell'anima" ma perché non rivendicabile nemmeno da chi mette a punto gli orologi che segnano il ritmo di vita del resto del mondo. Salus, che si è congedato dall'universo materiale e dalla sua (presunta) codificazione matematica, diventa con la morte di Roché la "lettera d'addio" del capo degli dèi: una lettera da non aprire, impedendo a quel "grido dell'anima" che è ogni confessione il suo sfogo. Da un punto di vista cinematografico, l'immobilismo che Andò racconta rallenta la narrazione luminosa e poetica: chissà se lo spettatore medio saprà sincronizzare il proprio tempo interiore a quello dilatato della storia narrata.
Il cast di Le confessioni asseconda la visione metafisica e stupefatta del suo regista: Toni Servillo è un catalizzatore morale passivo e sibillino, Pierfrancesco Favino un ministro agìto dal suo ruolo e condannato ad essere estraneo a se stesso. Nessuno scambio verbale è spontaneo perché ogni frase è un testamento, ovvero una confessione. Ma per questi dèi condannati a governare il caos non c'è assoluzione, solo la possibilità di compiere una presa d'atto della propria intrinseca manchevolezza.
lunedì 30 maggio 2016
Milonga: Biko
Non andavo da tempo, ero deluso.
Questa volta peggio: straniato.
Brutta gente, solo fenomeni. Musica più sciatta di come ricordavo, col dj che ballava più di quanto mettesse musica.
Scappato presto e per sempre
Questa volta peggio: straniato.
Brutta gente, solo fenomeni. Musica più sciatta di come ricordavo, col dj che ballava più di quanto mettesse musica.
Scappato presto e per sempre
sabato 28 maggio 2016
Mostra: Il corpo nel vuoto - di Davide Pizzigoni
Pochi pezzi ma tematica ed ambiantazione molto interessante, giocata anche sull'interazione con gli arredi della villa stessa.
Accompagnamento a cura delle studentesse dell'istituto Frisi, in scambio scuola/lavoro. Esperimento valido per far capire ai ragazzi difficoltà ed impegno del mondo.
Con Gio
Il FAI ospita da giovedì 12 maggio a domenica 12 giugno 2016 a Villa Necchi Campiglio a Milano la mostra “Il corpo del vuoto”, con dodici installazioni site-specific di Davide Pizzigoni che raccontano la sua ricerca artistica, iniziata nel 1995, sul corpo dello spazio vuoto, su ciò che sta tra le cose.
Nelle opere di Pizzigoni - architetto, designer, pittore, fotografo e scenografo - la realtà, fatta di cose, viene rovesciata ed è vista come in un negativo fotografico: il vuoto diventa pieno, il pieno semplicemente sparisce, è interessante solo come mezzo rivelatore del vuoto. Il vuoto viene quindi rappresentato attraverso un lavoro sul “limite” che lo definisce.
Le installazioni esposte sono state ideate, scelte e realizzate da Davide Pizzigoni per dialogare con lo spazio e con la vocazione dei luoghi in cui sono collocate. «Ho fatto molti sopralluoghi a Villa Necchi Campiglio – racconta l'artista - prima di decidere la posizione dei lavori, costruendo delle sagome in cartoncino per indagare più a fondo il rapporto tra l'opera e il luogo. Mi interessava mostrare che il vuoto non è un'assenza, un intervallo, ma al contrario ha un corpo, plastico, tridimensionale anzi con una quarta dimensione, quella del tempo necessario a percorrerlo e abitarlo».
Accompagnamento a cura delle studentesse dell'istituto Frisi, in scambio scuola/lavoro. Esperimento valido per far capire ai ragazzi difficoltà ed impegno del mondo.
Con Gio
Il FAI ospita da giovedì 12 maggio a domenica 12 giugno 2016 a Villa Necchi Campiglio a Milano la mostra “Il corpo del vuoto”, con dodici installazioni site-specific di Davide Pizzigoni che raccontano la sua ricerca artistica, iniziata nel 1995, sul corpo dello spazio vuoto, su ciò che sta tra le cose.
Nelle opere di Pizzigoni - architetto, designer, pittore, fotografo e scenografo - la realtà, fatta di cose, viene rovesciata ed è vista come in un negativo fotografico: il vuoto diventa pieno, il pieno semplicemente sparisce, è interessante solo come mezzo rivelatore del vuoto. Il vuoto viene quindi rappresentato attraverso un lavoro sul “limite” che lo definisce.
Le installazioni esposte sono state ideate, scelte e realizzate da Davide Pizzigoni per dialogare con lo spazio e con la vocazione dei luoghi in cui sono collocate. «Ho fatto molti sopralluoghi a Villa Necchi Campiglio – racconta l'artista - prima di decidere la posizione dei lavori, costruendo delle sagome in cartoncino per indagare più a fondo il rapporto tra l'opera e il luogo. Mi interessava mostrare che il vuoto non è un'assenza, un intervallo, ma al contrario ha un corpo, plastico, tridimensionale anzi con una quarta dimensione, quella del tempo necessario a percorrerlo e abitarlo».
Wired Next Festival
La Milano del futuro secondo Stefano Parisi
La Milano del futuro secondo Giuseppe Sala
La Milano del futuro secondo Martina Dell’Ombra
venerdì 27 maggio 2016
Cinema: Julieta
Un brutto film, con una storia che dice poco e raccontata male. Sensi di colpa come e perchè?
Con Gio
Viaggio interiore che risale il tempo, Julieta è un film secco, semplice, essenziale, che rifiuta il pastiche hollywoodiano e mette in scena la vita nuda e cruda
Marzia Gandolfi * * * 1/2 -
Julieta ha deciso di lasciare la Spagna per il Portogallo, dove si trasferisce l'uomo che ama. Sgombra la casa e ingombra i cartoni di cose e ricordi, tracce forti di un passato che riemerge implacabile. L'incontro casuale con Beatriz, amica d'infanzia di sua figlia, la convince a restare a Madrid. Quella riunione è un segno, quello che aspetta da tredici anni, il tempo che la separa da Antía. Figliola prodiga partita per sempre, Antía ha fatto perdere ogni traccia di sé a quella madre senza colpa che incolpa. Julieta attende come Penelope appesa a un filo e a un diario che svolge la sua storia. Poi il destino le consegna una lettera.
Qualcosa è cambiato nel cinema di Pedro Almodóvar. Niente pastiche hollywoodiano, nessuna effusione narrativa o profusione di personaggi, intrighi, situazioni, segreti rivelati, Julieta è un film secco, semplice, essenziale. In Julieta non c'è che la vita, nuda e cruda. Con la finzione e la sua messa in scena Almodóvar fa i conti nel prologo e in un primo piano su un tessuto rosso che evoca il drappo di un sipario. Ma l'illusione dura un attimo e quello che sembrava panno pesante si rivela stoffa leggera su un cuore che batte. Il cuore è quello di Julieta che aspetta, aspetta da tutta la vita che sua figlia ritorni come Ulisse, che argomenta giovane insegnante di lettere antiche in un liceo.
Ispirato a tre racconti di Alice Munro, assemblati e condensati insieme, Julieta non è un melodramma ma una tragedia perché il destino gioca un ruolo fondamentale. Dopo la parentesi de Gli amanti passeggeri, l'autore torna al ritratto femminile misurato questa volta con il fato, con un Mediterraneo senza luce, agitato da dei crudeli e capricciosi che inghiottono gli uomini o li spiaggiano in un esilio infinito. Nessun artificio teatrale interviene a sublimare l'afflizione della madre del titolo che Almodóvar sceglie di far interpretare da due attrici, Emma Suárez e Adriana Ugarte, avvicendandole in un raccordo antologico. Un'ellissi temporale agita sotto un asciugamano che friziona i capelli della giovane madre dell'Ugarte e si solleva sul volto invecchiato della Suárez, rinchiudendo per sempre la protagonista in una pelle che non è più quella del desiderio. L'una accesa e luminosa sotto i capelli ossigenati è la perfetta emanazione della movida e del cinema barocco di Almodóvar, in cui lo spettatore ripara innamorandosi come Julieta di un pescatore pescato in treno, l'altra spenta dalla colpa, la perdita e la solitudine vive un esilio bianco sulla terra, un coma che sospende il dolore in attesa che qualcuno parli con lei. Confinata nel suo appartamento e 'giudicata' tre volte nel grado di giovane donna, moglie e madre dall'uomo del treno, dalla donna di servizio e dalla direttrice di un gruppo spirituale, Julieta non si perdona e come un gene trasmette alla figlia la colpa che da tredici anni la tiene lontana dal genitore.
Viaggio interiore che risale il tempo fino all'avvenimento che ha determinato la vita della sua protagonista, Julieta è un film sulla colpa, forza motrice del film e malattia morale che impedisce all'eroina di approfittare dei regali della vita (Lorenzo). Julieta non ha commesso nessuno 'delitto' e non ha niente da scontare eppure non può fare a meno di sentirsi responsabile per il suicidio di uno sconosciuto che aveva rifiutato di ascoltare in treno. Il treno su cui nasce il grande amore carnale e consolatorio per il compagno e il padre di sua figlia. Sentimento sconfitto anche lui dalla certezza di una nuova, e questa volta inconsolabile, colpa. Fare l'amore per scongiurare la morte, da Matador l'autore non smette di coniugare questo principio a cui aggiunge l'impossibilità di fuggire il destino. Tra flashback, accelerazioni ed ellissi che imbrigliano, appassiscono e consumano i personaggi, Julieta appunta la cifra di Hitchcock sul personaggio di Rossy de Palma, domestica della 'prima moglie' che piomba sul dramma l'ombra del noir e introduce a un mare incantatore e annunciatore di naufragio. Armonizzando la partitura di Alberto Iglesias con le note drammatiche del silenzio, Almodóvar afferra la grazia della gravità tra il nero del fondo e il bagliore della forma.
Con Gio
Viaggio interiore che risale il tempo, Julieta è un film secco, semplice, essenziale, che rifiuta il pastiche hollywoodiano e mette in scena la vita nuda e cruda
Marzia Gandolfi * * * 1/2 -
Julieta ha deciso di lasciare la Spagna per il Portogallo, dove si trasferisce l'uomo che ama. Sgombra la casa e ingombra i cartoni di cose e ricordi, tracce forti di un passato che riemerge implacabile. L'incontro casuale con Beatriz, amica d'infanzia di sua figlia, la convince a restare a Madrid. Quella riunione è un segno, quello che aspetta da tredici anni, il tempo che la separa da Antía. Figliola prodiga partita per sempre, Antía ha fatto perdere ogni traccia di sé a quella madre senza colpa che incolpa. Julieta attende come Penelope appesa a un filo e a un diario che svolge la sua storia. Poi il destino le consegna una lettera.
Qualcosa è cambiato nel cinema di Pedro Almodóvar. Niente pastiche hollywoodiano, nessuna effusione narrativa o profusione di personaggi, intrighi, situazioni, segreti rivelati, Julieta è un film secco, semplice, essenziale. In Julieta non c'è che la vita, nuda e cruda. Con la finzione e la sua messa in scena Almodóvar fa i conti nel prologo e in un primo piano su un tessuto rosso che evoca il drappo di un sipario. Ma l'illusione dura un attimo e quello che sembrava panno pesante si rivela stoffa leggera su un cuore che batte. Il cuore è quello di Julieta che aspetta, aspetta da tutta la vita che sua figlia ritorni come Ulisse, che argomenta giovane insegnante di lettere antiche in un liceo.
Ispirato a tre racconti di Alice Munro, assemblati e condensati insieme, Julieta non è un melodramma ma una tragedia perché il destino gioca un ruolo fondamentale. Dopo la parentesi de Gli amanti passeggeri, l'autore torna al ritratto femminile misurato questa volta con il fato, con un Mediterraneo senza luce, agitato da dei crudeli e capricciosi che inghiottono gli uomini o li spiaggiano in un esilio infinito. Nessun artificio teatrale interviene a sublimare l'afflizione della madre del titolo che Almodóvar sceglie di far interpretare da due attrici, Emma Suárez e Adriana Ugarte, avvicendandole in un raccordo antologico. Un'ellissi temporale agita sotto un asciugamano che friziona i capelli della giovane madre dell'Ugarte e si solleva sul volto invecchiato della Suárez, rinchiudendo per sempre la protagonista in una pelle che non è più quella del desiderio. L'una accesa e luminosa sotto i capelli ossigenati è la perfetta emanazione della movida e del cinema barocco di Almodóvar, in cui lo spettatore ripara innamorandosi come Julieta di un pescatore pescato in treno, l'altra spenta dalla colpa, la perdita e la solitudine vive un esilio bianco sulla terra, un coma che sospende il dolore in attesa che qualcuno parli con lei. Confinata nel suo appartamento e 'giudicata' tre volte nel grado di giovane donna, moglie e madre dall'uomo del treno, dalla donna di servizio e dalla direttrice di un gruppo spirituale, Julieta non si perdona e come un gene trasmette alla figlia la colpa che da tredici anni la tiene lontana dal genitore.
Viaggio interiore che risale il tempo fino all'avvenimento che ha determinato la vita della sua protagonista, Julieta è un film sulla colpa, forza motrice del film e malattia morale che impedisce all'eroina di approfittare dei regali della vita (Lorenzo). Julieta non ha commesso nessuno 'delitto' e non ha niente da scontare eppure non può fare a meno di sentirsi responsabile per il suicidio di uno sconosciuto che aveva rifiutato di ascoltare in treno. Il treno su cui nasce il grande amore carnale e consolatorio per il compagno e il padre di sua figlia. Sentimento sconfitto anche lui dalla certezza di una nuova, e questa volta inconsolabile, colpa. Fare l'amore per scongiurare la morte, da Matador l'autore non smette di coniugare questo principio a cui aggiunge l'impossibilità di fuggire il destino. Tra flashback, accelerazioni ed ellissi che imbrigliano, appassiscono e consumano i personaggi, Julieta appunta la cifra di Hitchcock sul personaggio di Rossy de Palma, domestica della 'prima moglie' che piomba sul dramma l'ombra del noir e introduce a un mare incantatore e annunciatore di naufragio. Armonizzando la partitura di Alberto Iglesias con le note drammatiche del silenzio, Almodóvar afferra la grazia della gravità tra il nero del fondo e il bagliore della forma.
martedì 24 maggio 2016
Milonga: ARCI Bellezza
Andato presto per riuscire a ballare un po prima del concerto, preoccupato del fatto che si prolungasse troppo, come in effetti è successo.
Ballato anche bene, con Sonia ed altre signore più o meno conosciute.
Mancato solo una ragazza con cui avevo ballato molto bene la settimana prima.
Il concerto poi è stato anche interessante e loro bravi ma si è protratto fin dopo l'una, con un inevitabile calo di tensione che mi ha portato a decidere di tornare a casa.
Ballato anche bene, con Sonia ed altre signore più o meno conosciute.
Mancato solo una ragazza con cui avevo ballato molto bene la settimana prima.
Il concerto poi è stato anche interessante e loro bravi ma si è protratto fin dopo l'una, con un inevitabile calo di tensione che mi ha portato a decidere di tornare a casa.
domenica 22 maggio 2016
sabato 21 maggio 2016
Piano City: Toros Can
Musica sperimentale un po difficile... ma il posto è particolare e le sdraio comode.
TOROS CAN
G. LIGETI, H. PURCELL, J. HARVEY, J. VELDHUIS, D.BOWIE-T.CAN-K.EREL, J. HARVEY, J. TER VELDHUIS
Henry Purcell (1659-1695) Suite No.4 A minor [Z.663] (1696) Prelude / Almand / Corante / Saraband Henry Purcell (1659-1695) Suite No.7 D minor [Z.668] (1696) Almand / Corant / Hornpipe Jonathan Harvey (1939-2012) Tombeau de Messiaen for piano and tape (1994) György Ligeti (1923-2006) Musica Ricercata (1951-1953) excerpts. D.Bowie/T.Can/K.Erel Space Oddity for piano and tape (2011) Jacob Ter Veldhuis (JacobTV) (1951- ) The Body of Your Dreams for piano and boombox (2003)
venerdì 20 maggio 2016
giovedì 19 maggio 2016
Cinema: La pazza gioia
La prima mezz'ora del film è bella: la Bruni Tedeschi la fa da mattatrice, molto nella parte. Poi il film si perde un po, si dilunga., sconfina nella noia..
Trovo che le 5 stelle date al film siano esagerate, mi sa che sono date al tema più che al film in sè.
Trovo che le 5 stelle date al film siano esagerate, mi sa che sono date al tema più che al film in sè.
Paolo Virzì fonde ironia, buonumore e dramma in un on the road movie che guarda al mondo femminile con una sensibilità non usuale
Giancarlo Zappoli * * * 1/2 -
Beatrice Morandini Valdirana ha tutti i tratti della mitomane dalla loquela inarrestabile. Donatella Morelli è una giovane madre tatuata e psicologicamente fragile a cui è stato tolto il figlio per darlo in adozione. Sono entrambe pazienti della Villa Biondi, un istituto terapeutico per donne che sono state oggetto di sentenza da parte di un tribunale e che debbono sottostare a una terapia di recupero. È qui che si incontrano e fanno amicizia nonostante l'estrema diversità dei loro caratteri. Fino a quando un giorno, approfittando di una falla nell'organizzazione, decidono di prendersi una vacanza e di darsi alla pazza gioia.
Paolo Virzì, con la collaborazione di Francesca Archibugi alla scrittura, ha lasciato il freddo Nord di Il capitale umano per tornare nell'amata Toscana che gli consente di fondere, come solo lui sa fare, ironia, buonumore e dramma muovendosi tra le diverse temperature emotive con una sensibilità che si fa, film dopo film, sempre più acuta e partecipe delle sorti dei personaggi che porta sullo schermo. Si sono già scritte nel passato pagine e riflessioni su un Virzì erede della commedia italiana degli Anni d'Oro ma quello che si può aggiungere ora è che al suo personale capitale di autore si è aggiunta una capacità di sguardo sul mondo femminile che nel cinema italiano diretto da uomini non è per nulla usuale.
Sarà forse perché sa scegliere le sue interpreti (Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti sono entrambe straordinarie, ognuna a suo modo, nello scavare in personaggi non facili da rendere tenendo la retorica a dovuta distanza). Sarà perché nel film si sente la verità iniettata (questo è il termine giusto visto che di medicinali si tratta spesso) grazie a una lunga ricerca sul campo su un disagio sociale che si traduce in un disagio psichico. Sarà anche perché si avverte l'attenzione partecipata ad ogni singolo dettaglio in un film in cui si capisce che anche l'ultima comparsa si è sentita parte di un progetto condiviso. Un progetto che vuole porre in evidenza la condizione di questo particolare tipo di donne condannate da una vita in cui hanno sbagliato trovandosi poi però dinanzi a terapeuti ed assistenti sociali che ogni giorno gli sono accanto e combattono con le loro patologie ma anche con visioni banalmente punitive che nulla hanno a che vedere con il recupero sociale. Riuscire a dire tutto ciò (e anche molto di più) in un on the road in cui si ride, si sorride e ci si commuove non era impresa facile. A Paolo Virzì è riuscita da maestro.
martedì 17 maggio 2016
Milonga: Arci Bellezza
L'ARCI certa sere è veramente una milonga difficile: zeppa di maestri, con un gruppo abbastanza espanso di donne che ballano solo con pochi fortunati,
Quindi le possibilità sono poche e si passa molto tempo al palo.
Un paio di buone tande si riescono poi a tirar fuori (una anche ottima) ma il rapporto quantità di tande/tempo è veramente poco conveniente.
Quindi le possibilità sono poche e si passa molto tempo al palo.
Un paio di buone tande si riescono poi a tirar fuori (una anche ottima) ma il rapporto quantità di tande/tempo è veramente poco conveniente.
Cinema/Concerto: A night in Bohemia
I Queen nei loro primi anni. Il concerto contiene poi molte canzoni degli esordi, a me sconosciute.
Con Gio
La prima esibizione live di Bohemian Rhapsody, all'interno di un documentario sulla genesi dello storico brano
Emanuele Sacchi * * 1/2 - -
Quello che non tutti forse sanno è che esistono dei Queen precedenti a Bohemian Rhapsody e al suo incredibile e duraturo successo planetario. Una band trascurata dai più, scarsamente considerata a livello critico, alfiera di un sound progressive con testi di ispirazione fantasy: in sostanza il tipico gruppo che Sex Pistols e soci avevano in mente quando qualche anno più tardi rivoluzionarono il rock, sfrondandolo dagli eccessi kitsch e riportandolo alla sua essenza.
Fu proprio Bohemian Rhapsody a cambiare la storia dei Queen per sempre, introducendo elementi di difficile assimilazione in ambito rock, quali l'opera, e donando un'identità a una band che ne era priva. Il documentario con cui A Night in Bohemia ha inizio si occupa di raccontare in trenta minuti la genesi e le vicissitudini di un brano unico, attraverso le testimonianze di Freddie Mercury, Brian May e soci. Una storia di coraggio - la casa discografica voleva tagliare il brano per arrivare a una durata più radiofonica - premiato con un successo tale da portare i Queen sul palco dello Hammersmith Odeon di Londra per il concerto, ripreso in diretta su BBC, di Natale 1975, che finisce per costituire il resto di A Night in Bohemia. Audio rimasterizzato e riportato all'originario fulgore, mentre sul restauro delle immagini si è fatto il possibile. L'esibizione, con la prima esecuzione live di Bohemian Rhapsody, risulta estremamente datata e probabilmente ostica per chi non è fan del gruppo.
Troppi assoli dispersivi, troppe composizioni velleitarie e appartenenti a un'epoca in cui il gruppo cercava ancora una propria via. La peculiare personalità on stage di Mercury, invece, è già quella delle migliori occasioni. Un documento di indubbio valore storico, al di là dell'obsolescenza dal punto di vista artistico.
Con Gio
La prima esibizione live di Bohemian Rhapsody, all'interno di un documentario sulla genesi dello storico brano
Emanuele Sacchi * * 1/2 - -
Quello che non tutti forse sanno è che esistono dei Queen precedenti a Bohemian Rhapsody e al suo incredibile e duraturo successo planetario. Una band trascurata dai più, scarsamente considerata a livello critico, alfiera di un sound progressive con testi di ispirazione fantasy: in sostanza il tipico gruppo che Sex Pistols e soci avevano in mente quando qualche anno più tardi rivoluzionarono il rock, sfrondandolo dagli eccessi kitsch e riportandolo alla sua essenza.
Fu proprio Bohemian Rhapsody a cambiare la storia dei Queen per sempre, introducendo elementi di difficile assimilazione in ambito rock, quali l'opera, e donando un'identità a una band che ne era priva. Il documentario con cui A Night in Bohemia ha inizio si occupa di raccontare in trenta minuti la genesi e le vicissitudini di un brano unico, attraverso le testimonianze di Freddie Mercury, Brian May e soci. Una storia di coraggio - la casa discografica voleva tagliare il brano per arrivare a una durata più radiofonica - premiato con un successo tale da portare i Queen sul palco dello Hammersmith Odeon di Londra per il concerto, ripreso in diretta su BBC, di Natale 1975, che finisce per costituire il resto di A Night in Bohemia. Audio rimasterizzato e riportato all'originario fulgore, mentre sul restauro delle immagini si è fatto il possibile. L'esibizione, con la prima esecuzione live di Bohemian Rhapsody, risulta estremamente datata e probabilmente ostica per chi non è fan del gruppo.
Troppi assoli dispersivi, troppe composizioni velleitarie e appartenenti a un'epoca in cui il gruppo cercava ancora una propria via. La peculiare personalità on stage di Mercury, invece, è già quella delle migliori occasioni. Un documento di indubbio valore storico, al di là dell'obsolescenza dal punto di vista artistico.
venerdì 13 maggio 2016
Cinema: Captain America: Civil War
La novità sono i buoni che combattono gli uni contro gli altri. per il resto solito filmone di Supereroi, godibile per le trovate che si inventano ad ogni nuova uscita.
Con Gio e Filo
Il cinefumetto Marvel è realizzato a regola d'arte e il personaggio che funziona di più è Spiderman
Gabriele Niola * * 1/2 - -
Le conseguenze del grande scontro avvenuto in Avengers: Age of Ultron portano ad una resa dei conti tra i Vendicatori e gli stati nazionali. L'America in primis chiede agli eroi di registrarsi, cioè di smettere di essere indipendenti e agire sotto il comando degli stati sovrani. La squadra si spacca così a metà, con una parte di eroi (facente capo ad Iron Man) favorevole all'idea per poter continuare la propria missione e un'altra (facente capo a Capitan America) convinta che tutto questo vada contro la loro stessa idea di missione. Divisi e con obiettivi diversi, i Vendicatori devono affrontare la minaccia di un terrorista che compie terribili attentati proprio ai loro danni, colpendo tra gli altri anche il re di Wakanda, stato africano in prima linea nel conflitto ai superumani poiché produttore di un metallo unico e utile alla causa. In tutto questo il soldato d'inverno, Bucky Barnes, è tornato e pare essere proprio lui il responsabile degli attacchi, di nuovo privo di memoria, di nuovo preda di una volontà altrui e di nuovo bisognoso dell'aiuto di Capitan America.
La serie di film dedicati a Capitan America sono per la Marvel la maniera di prendere di petto il mondo reale (o quasi). Quello di Steve Rogers è il medesimo universo degli altri supereroi, eppure le storie che lo riguardano hanno sempre a che vedere, in una maniera o nell'altra, con problemi concreti e con la maniera in cui lo stato si prende cura dei cittadini. Dal suo esordio con i Marvel Studios (Capitan America - Il primo vendicatore), che aveva a che vedere con la maniera in cui lo stato approfitta dei suoi soldati per combattere guerre che loro non capiscono, al secondo (Capitan America - Il soldato d'inverno) pensato in pieno stile anni '70, fobico e paranoico, centrato sulle agenzie segrete e i limiti del loro potere, fino a quest'ultimo il filo rosso è sempre l'etica dei governi e la loro propensione ad approfittarsi di chi dovrebbero proteggere.
Nonostante la folta presenza di altri Vendicatori faccia apparire Civil war come un film della serie Avengers, lo stesso in cui la trama gira intorno al terrorismo e alla paura costante di attacchi inarrestabili e invisibili riconduce tutto ai temi cari a Capitan America. In più viene rimarcato con forza il tema che regge quasi tutti i film tratti da fumetti americani, la vera maniera in cui Hollywood porta avanti il grande ragionamento sui nostri anni: quanto quel che facciamo per proteggerci sia in realtà la prima causa delle minacce che ci affliggono.
In un film che punta tutto su una contrapposizione tra forze positive, più viva nel marketing che poi nella storia, in maniera non diversa da quanto fatto dalla concorrenza con Batman V Superman, è quindi la presenza di una minaccia minuscola, molto umana e per niente super, a segnare la differenza dal resto dei film tratti da fumetti Marvel. Un uomo astuto, piccolo e anonimo (interpretato come sempre benissimo da Daniel Bruhl) sfugge agli ingranaggi della giustizia e sparge il terrore con attacchi imprevedibili e una strategia invisibile. È tra noi ma non lo vediamo, ha cattive intenzioni ma non sappiamo quando, dove e come colpirà.
Tuttavia è una differenza sottile che non bilancia la sensazione di già visto. L'universo Marvel, al cinema, funziona come una grande serie tv: nonostante l'avvicendarsi diversi registi (che ha portato a risultati diversi) lo stile, il look e la messa in scena sono sempre coerenti e, specie in Civil war, questo porta ad una forte impressione di ripetitività, non tanto nella storia quanto nella maniera in cui sono presentati gli eventi. Inseguimenti, confronti fisici, scontri verbali, svolte di trama, presentazioni dei villain e ancora showdown finali, arrivano e sono condotti sempre nella stessa maniera, variazioni su un medesimo canovaccio. Addirittura anche gli inseguimenti e i momenti d'azione si somigliano tutti.
Accade così che anche un film ben fatto e inappuntabile come questo dei fratelli Russo possa lo stesso risultare dimenticabile, perso nel mare di opere simili ed incapace di distinguersi se non per la fugace apparizione di un nuovo personaggio. È Spider-man l'unica presenza in grado di ravvivare il film, per la prima volta in mano alla casa che l'ha inventato (era la Sony e non la Disney, ora proprietaria della Marvel, a gestirne i diritti cinematografici in precedenza). E non sono tanto le qualità di scrittura o le doti del personaggio in sè a segnare la differenza, quanto lo sguardo completamente nuovo con cui il film lo osserva. Se infatti gli altri eroi sono filmati alla medesima altezza, Spider-man è guardato come un ragazzino. Negli altri film a lui dedicati, nonostante fosse sempre un adolescente, la prospettiva era quella di un suo pari, sembrava un ragazzo guardato da altri ragazzi, qui invece è un ragazzo come lo vedono gli adulti, pieno di ingenuità, problemi futili e troppo irruento. Invece che stonare questa novità funziona moltissimo, marca una differenza sostanziale dagli altri, idea uno specifico filmico e porta tutta un'altra aria al film. Segno che, per quanto non ci fosse bisogno di ricordarlo, anche nel mondo dei cinecomic valgono le medesime regole che regnano al resto del cinema, cioè che come eventi e personaggi vengono guardati fa tutta la differenza possibile.
Con Gio e Filo
Il cinefumetto Marvel è realizzato a regola d'arte e il personaggio che funziona di più è Spiderman
Gabriele Niola * * 1/2 - -
Le conseguenze del grande scontro avvenuto in Avengers: Age of Ultron portano ad una resa dei conti tra i Vendicatori e gli stati nazionali. L'America in primis chiede agli eroi di registrarsi, cioè di smettere di essere indipendenti e agire sotto il comando degli stati sovrani. La squadra si spacca così a metà, con una parte di eroi (facente capo ad Iron Man) favorevole all'idea per poter continuare la propria missione e un'altra (facente capo a Capitan America) convinta che tutto questo vada contro la loro stessa idea di missione. Divisi e con obiettivi diversi, i Vendicatori devono affrontare la minaccia di un terrorista che compie terribili attentati proprio ai loro danni, colpendo tra gli altri anche il re di Wakanda, stato africano in prima linea nel conflitto ai superumani poiché produttore di un metallo unico e utile alla causa. In tutto questo il soldato d'inverno, Bucky Barnes, è tornato e pare essere proprio lui il responsabile degli attacchi, di nuovo privo di memoria, di nuovo preda di una volontà altrui e di nuovo bisognoso dell'aiuto di Capitan America.
La serie di film dedicati a Capitan America sono per la Marvel la maniera di prendere di petto il mondo reale (o quasi). Quello di Steve Rogers è il medesimo universo degli altri supereroi, eppure le storie che lo riguardano hanno sempre a che vedere, in una maniera o nell'altra, con problemi concreti e con la maniera in cui lo stato si prende cura dei cittadini. Dal suo esordio con i Marvel Studios (Capitan America - Il primo vendicatore), che aveva a che vedere con la maniera in cui lo stato approfitta dei suoi soldati per combattere guerre che loro non capiscono, al secondo (Capitan America - Il soldato d'inverno) pensato in pieno stile anni '70, fobico e paranoico, centrato sulle agenzie segrete e i limiti del loro potere, fino a quest'ultimo il filo rosso è sempre l'etica dei governi e la loro propensione ad approfittarsi di chi dovrebbero proteggere.
Nonostante la folta presenza di altri Vendicatori faccia apparire Civil war come un film della serie Avengers, lo stesso in cui la trama gira intorno al terrorismo e alla paura costante di attacchi inarrestabili e invisibili riconduce tutto ai temi cari a Capitan America. In più viene rimarcato con forza il tema che regge quasi tutti i film tratti da fumetti americani, la vera maniera in cui Hollywood porta avanti il grande ragionamento sui nostri anni: quanto quel che facciamo per proteggerci sia in realtà la prima causa delle minacce che ci affliggono.
In un film che punta tutto su una contrapposizione tra forze positive, più viva nel marketing che poi nella storia, in maniera non diversa da quanto fatto dalla concorrenza con Batman V Superman, è quindi la presenza di una minaccia minuscola, molto umana e per niente super, a segnare la differenza dal resto dei film tratti da fumetti Marvel. Un uomo astuto, piccolo e anonimo (interpretato come sempre benissimo da Daniel Bruhl) sfugge agli ingranaggi della giustizia e sparge il terrore con attacchi imprevedibili e una strategia invisibile. È tra noi ma non lo vediamo, ha cattive intenzioni ma non sappiamo quando, dove e come colpirà.
Tuttavia è una differenza sottile che non bilancia la sensazione di già visto. L'universo Marvel, al cinema, funziona come una grande serie tv: nonostante l'avvicendarsi diversi registi (che ha portato a risultati diversi) lo stile, il look e la messa in scena sono sempre coerenti e, specie in Civil war, questo porta ad una forte impressione di ripetitività, non tanto nella storia quanto nella maniera in cui sono presentati gli eventi. Inseguimenti, confronti fisici, scontri verbali, svolte di trama, presentazioni dei villain e ancora showdown finali, arrivano e sono condotti sempre nella stessa maniera, variazioni su un medesimo canovaccio. Addirittura anche gli inseguimenti e i momenti d'azione si somigliano tutti.
Accade così che anche un film ben fatto e inappuntabile come questo dei fratelli Russo possa lo stesso risultare dimenticabile, perso nel mare di opere simili ed incapace di distinguersi se non per la fugace apparizione di un nuovo personaggio. È Spider-man l'unica presenza in grado di ravvivare il film, per la prima volta in mano alla casa che l'ha inventato (era la Sony e non la Disney, ora proprietaria della Marvel, a gestirne i diritti cinematografici in precedenza). E non sono tanto le qualità di scrittura o le doti del personaggio in sè a segnare la differenza, quanto lo sguardo completamente nuovo con cui il film lo osserva. Se infatti gli altri eroi sono filmati alla medesima altezza, Spider-man è guardato come un ragazzino. Negli altri film a lui dedicati, nonostante fosse sempre un adolescente, la prospettiva era quella di un suo pari, sembrava un ragazzo guardato da altri ragazzi, qui invece è un ragazzo come lo vedono gli adulti, pieno di ingenuità, problemi futili e troppo irruento. Invece che stonare questa novità funziona moltissimo, marca una differenza sostanziale dagli altri, idea uno specifico filmico e porta tutta un'altra aria al film. Segno che, per quanto non ci fosse bisogno di ricordarlo, anche nel mondo dei cinecomic valgono le medesime regole che regnano al resto del cinema, cioè che come eventi e personaggi vengono guardati fa tutta la differenza possibile.
domenica 8 maggio 2016
Mostra: XXI Triennale CONFLUENCE
L’esposizione nasce da “Studiare il futuro già accaduto”, un ciclo di incontri sul sistema climatico del bacino del Po dal Novecento a oggi. Un progetto che ha inteso aprire e condividere una riflessione tra saperi diversi: sulla natura e sull’uomo, accademici e non, su scala locale e globale, attraverso le generazioni.
In occasione della XXI Esposizione Internazionale della Triennale di Milano il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci ospita la mostra Confluence.
L’esposizione nasce da “Studiare il futuro già accaduto”, un ciclo di incontri sul sistema climatico del bacino del Po dal Novecento a oggi. Un progetto che ha inteso aprire e condividere una riflessione tra saperi diversi: sulla natura e sull’uomo, accademici e non, su scala locale e globale, attraverso le generazioni.
È stato ideato dal Museo con l’Autorità di bacino del fiume Po, l’Università degli Studi di Milano e l’Università Milano Bicocca.
La mostra si apre con un nucleo dedicato a Leonardo da Vinci per rappresentare la sua attenzione al territorio, all’acqua e la sua idea unitaria del sapere.
Un’installazione che si snoda per l’intero percorso espositivo suggerisce come tutto nel mondo sia connesso e ognuno di noi sia parte di una rete complessa di relazioni.
Il bacino del Po è riprodotto su grande scala in un’atmosfera suggestiva che invita a scoprire le principali caratteristiche del territorio e la complessità di una progettazione integrata.
Idrosfera, atmosfera, geosfera, biosfera e antroposfera permettono di esplorare il sistema climatico.
I saperi sono rappresentati da strumenti storici e contemporanei: mappe, oggetti, documenti, testimonianze e opere artistiche.
Il coinvolgimento avviato durante il Progetto per costruire una “cassetta degli attrezzi” sui saperi prosegue nell’esposizione grazie al contributo personale che ciascun visitatore può lasciare alla fine della visita.
In un forum fisico, il Museo propone momenti di incontro, dibattito e performance.
Il Museo esplora così nuove possibilità per essere luogo d’incontro e di lavoro comune su tematiche rilevanti nella contemporaneità e al tempo stesso torna all’idea di unità della cultura che ha ispirato la nascita dell’Istituzione.
In occasione della XXI Esposizione Internazionale della Triennale di Milano il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci ospita la mostra Confluence.
L’esposizione nasce da “Studiare il futuro già accaduto”, un ciclo di incontri sul sistema climatico del bacino del Po dal Novecento a oggi. Un progetto che ha inteso aprire e condividere una riflessione tra saperi diversi: sulla natura e sull’uomo, accademici e non, su scala locale e globale, attraverso le generazioni.
È stato ideato dal Museo con l’Autorità di bacino del fiume Po, l’Università degli Studi di Milano e l’Università Milano Bicocca.
La mostra si apre con un nucleo dedicato a Leonardo da Vinci per rappresentare la sua attenzione al territorio, all’acqua e la sua idea unitaria del sapere.
Un’installazione che si snoda per l’intero percorso espositivo suggerisce come tutto nel mondo sia connesso e ognuno di noi sia parte di una rete complessa di relazioni.
Il bacino del Po è riprodotto su grande scala in un’atmosfera suggestiva che invita a scoprire le principali caratteristiche del territorio e la complessità di una progettazione integrata.
Idrosfera, atmosfera, geosfera, biosfera e antroposfera permettono di esplorare il sistema climatico.
I saperi sono rappresentati da strumenti storici e contemporanei: mappe, oggetti, documenti, testimonianze e opere artistiche.
Il coinvolgimento avviato durante il Progetto per costruire una “cassetta degli attrezzi” sui saperi prosegue nell’esposizione grazie al contributo personale che ciascun visitatore può lasciare alla fine della visita.
In un forum fisico, il Museo propone momenti di incontro, dibattito e performance.
Il Museo esplora così nuove possibilità per essere luogo d’incontro e di lavoro comune su tematiche rilevanti nella contemporaneità e al tempo stesso torna all’idea di unità della cultura che ha ispirato la nascita dell’Istituzione.
venerdì 6 maggio 2016
Milonga: Che bailarin
Musica veramente bella: Ale Mazza stasera le imbrocca tutte.
Ballerine pochette e quindi difficile ballare con quelle con cui volevo. Verso le 1230 stvo quasi per lasciare dal disappunto. Poi sul tardi imbrocco qualche tanda molto buona e la serata finisce con soddisfazione.
Ballerine pochette e quindi difficile ballare con quelle con cui volevo. Verso le 1230 stvo quasi per lasciare dal disappunto. Poi sul tardi imbrocco qualche tanda molto buona e la serata finisce con soddisfazione.
Cinema: Veloce come il vento
Veramente un bel film: avvincente, ben girato, sceneggiatura perfetta, grande Accorsi
Con intelligenza, sensibilità e gusto Rovere si butta a rotta di collo lungo un tracciato pieno di curve pericolose tenendo ben saldo il volante
Paola Casella * * * 1/2 -
Giulia De Martino vive in una cascina nella campagna dell'Emilia Romagna con il fratellino Nico. Sua madre se ne è andata (più volte) di casa, e suo fratello maggiore Loris, una leggenda dell'automobilismo da rally, è diventato un "tossico di merda" parcheggiato in una roulotte. Quando anche il padre di Giulia, che aveva scommesso su di lei come futura campionessa di Gran Turismo usando come collaterale la cascina, la lascia sola, Giulia si trova a gestire lo sfratto incipiente, il fratellino spaesato e il fratellone avido dell'eredità paterna. Ma la vera eredità dei De Martino è quella benzina che scorre loro nelle vene insieme al sangue e quel talento di famiglia, ostinato e rabbioso, per le quattro ruote.
Dopo due regie da rampollo di buona famiglia - Un gioco da ragazze e Gli sfiorati - Matteo Rovere finalmente esce dai Parioli e riscopre le sue radici romagnole, con tanto di unghie sporche di terra e imprecazioni in quel dialetto sanguigno che domina il mondo del motor sport italiano. Con intelligenza, sensibilità e gusto Rovere si butta a rotta di collo lungo un tracciato pieno di curve pericolose tenendo ben saldo il volante, con il sostegno di una bella sceneggiatura scritta a sei mani, oltre che da lui, da Filippo Gravino e Francesca Manieri. Lo spunto è una storia vera raccontata al regista da un meccanico scomparso l'anno scorso, cui sul grande schermo dà il volto segnato e la recitazione misurata l'ottimo Paolo Graziosi. Lo stile è quello del film di genere, ma più che al motor movie stile Rush Rovere attinge all'underdog movie di matrice atletica alla Rocky o alla Flashdance, aggiungendo un pizzico della follia da race movie farsesco alla Quei temerari sulle macchine volanti.
Volano davvero, le auto da corsa di Veloce come il vento, così come sono davvero matti e disperatissimi i loro piloti (il che ispira la battuta migliore del film), giovani o vecchi, maschi o femmine. Perché uno dei (tanti) pregi del film di Rovere è che racconta (senza mai sottolinearlo con facile retorica e ancor più facile piaggeria nei confronti del pubblico femminile) un mondo dove le pari opportunità sono reali: Giulia gareggia da sempre insieme ai piloti uomini, e tutto ciò che conta è l'asfalto che brucia e la grinta che sa dimostrare al volante.
Matilda De Angelis, al suo esodio cinematografico, è perfetta nei panni di una 17enne che ha il motore nel dna ma anche responsabilità adulte e piedi ben piantati per terra. Il suo sguardo sotto il casco mescola terrore e adrenalina, il suo corpo acerbo comunica fragilità e determinazione. La sua recitazione sobria e autentica, che ben si sposa con quella di Grazioli e del piccolo Giulio Pugnaghi nei panni di Nico, fa da contraltare e da contenitore a quella sopra le righe di Stefano Accorsi, che sulle prime pare gigioneria e invece conquista gradualmente dignità e carisma, per diventare la brillante caratterizzazione di un uomo in equilibrio su un crinale scosceso, un perdente glorioso degno di quell'universo epico e spaccone che è il mondo delle corse, siano esse su circuito di Formula Uno o su strada sterrata. Passato il mezzo del cammin della sua vita Accorsi sciacqua saggiamente i panni nel Po e non solo rispolvera il suo accento (pre Maxibon) ma acquisisce anche una postura da contadino della Bassa, e attinge alla fame di vita del Vasco prima maniera e alla poesia anarchica del Liga (Antonio, più che Luciano). Le riprese di gara sono convincenti e si lasciano seguire anche da chi non le conosce né le apprezza, e non privilegiano mai l'abilità tecnologica rispetto alla dimensione umanistica del racconto. In questo senso Veloce come il vento è più analogico che digitale, e gli effetti speciali sono vintage come il codice d'onore di Loris De Martino.
Il film di Rovere fa parte di quella rinascita del cinema italiano che affronta il genere per trascenderlo, e affonda le radici nei localismi dopo aver appreso a fondo la lezione (cinematografica) della globalizzazione. Soprattutto, fa qualcosa di grande: mostra alle giovanissime generazioni, per bocca di un quarantenne che si è bruciato e che ha distrutto l'automobile con cui correva vent'anni fa (una datazione non casuale), che si debba, e si possa, correre dei rischi, che si possa, e si debba, aggiustare ciò che abbiamo (o è stato) fatto a pezzi, che è lecito farsi (del) male ma anche (auto)ripararsi. Dimostra che aver paura di tagliarle il cordolo (o il cordone ombelicale) allontana dal traguardo, e che le ragazze non sono condannate ad essere colibrì dalle ali azzurre, ma possono diventare contendenti.
Paola Casella * * * 1/2 -
Giulia De Martino vive in una cascina nella campagna dell'Emilia Romagna con il fratellino Nico. Sua madre se ne è andata (più volte) di casa, e suo fratello maggiore Loris, una leggenda dell'automobilismo da rally, è diventato un "tossico di merda" parcheggiato in una roulotte. Quando anche il padre di Giulia, che aveva scommesso su di lei come futura campionessa di Gran Turismo usando come collaterale la cascina, la lascia sola, Giulia si trova a gestire lo sfratto incipiente, il fratellino spaesato e il fratellone avido dell'eredità paterna. Ma la vera eredità dei De Martino è quella benzina che scorre loro nelle vene insieme al sangue e quel talento di famiglia, ostinato e rabbioso, per le quattro ruote.
Dopo due regie da rampollo di buona famiglia - Un gioco da ragazze e Gli sfiorati - Matteo Rovere finalmente esce dai Parioli e riscopre le sue radici romagnole, con tanto di unghie sporche di terra e imprecazioni in quel dialetto sanguigno che domina il mondo del motor sport italiano. Con intelligenza, sensibilità e gusto Rovere si butta a rotta di collo lungo un tracciato pieno di curve pericolose tenendo ben saldo il volante, con il sostegno di una bella sceneggiatura scritta a sei mani, oltre che da lui, da Filippo Gravino e Francesca Manieri. Lo spunto è una storia vera raccontata al regista da un meccanico scomparso l'anno scorso, cui sul grande schermo dà il volto segnato e la recitazione misurata l'ottimo Paolo Graziosi. Lo stile è quello del film di genere, ma più che al motor movie stile Rush Rovere attinge all'underdog movie di matrice atletica alla Rocky o alla Flashdance, aggiungendo un pizzico della follia da race movie farsesco alla Quei temerari sulle macchine volanti.
Volano davvero, le auto da corsa di Veloce come il vento, così come sono davvero matti e disperatissimi i loro piloti (il che ispira la battuta migliore del film), giovani o vecchi, maschi o femmine. Perché uno dei (tanti) pregi del film di Rovere è che racconta (senza mai sottolinearlo con facile retorica e ancor più facile piaggeria nei confronti del pubblico femminile) un mondo dove le pari opportunità sono reali: Giulia gareggia da sempre insieme ai piloti uomini, e tutto ciò che conta è l'asfalto che brucia e la grinta che sa dimostrare al volante.
Matilda De Angelis, al suo esodio cinematografico, è perfetta nei panni di una 17enne che ha il motore nel dna ma anche responsabilità adulte e piedi ben piantati per terra. Il suo sguardo sotto il casco mescola terrore e adrenalina, il suo corpo acerbo comunica fragilità e determinazione. La sua recitazione sobria e autentica, che ben si sposa con quella di Grazioli e del piccolo Giulio Pugnaghi nei panni di Nico, fa da contraltare e da contenitore a quella sopra le righe di Stefano Accorsi, che sulle prime pare gigioneria e invece conquista gradualmente dignità e carisma, per diventare la brillante caratterizzazione di un uomo in equilibrio su un crinale scosceso, un perdente glorioso degno di quell'universo epico e spaccone che è il mondo delle corse, siano esse su circuito di Formula Uno o su strada sterrata. Passato il mezzo del cammin della sua vita Accorsi sciacqua saggiamente i panni nel Po e non solo rispolvera il suo accento (pre Maxibon) ma acquisisce anche una postura da contadino della Bassa, e attinge alla fame di vita del Vasco prima maniera e alla poesia anarchica del Liga (Antonio, più che Luciano). Le riprese di gara sono convincenti e si lasciano seguire anche da chi non le conosce né le apprezza, e non privilegiano mai l'abilità tecnologica rispetto alla dimensione umanistica del racconto. In questo senso Veloce come il vento è più analogico che digitale, e gli effetti speciali sono vintage come il codice d'onore di Loris De Martino.
Il film di Rovere fa parte di quella rinascita del cinema italiano che affronta il genere per trascenderlo, e affonda le radici nei localismi dopo aver appreso a fondo la lezione (cinematografica) della globalizzazione. Soprattutto, fa qualcosa di grande: mostra alle giovanissime generazioni, per bocca di un quarantenne che si è bruciato e che ha distrutto l'automobile con cui correva vent'anni fa (una datazione non casuale), che si debba, e si possa, correre dei rischi, che si possa, e si debba, aggiustare ciò che abbiamo (o è stato) fatto a pezzi, che è lecito farsi (del) male ma anche (auto)ripararsi. Dimostra che aver paura di tagliarle il cordolo (o il cordone ombelicale) allontana dal traguardo, e che le ragazze non sono condannate ad essere colibrì dalle ali azzurre, ma possono diventare contendenti.
giovedì 5 maggio 2016
Mostra: UMBERTO BOCCIONI (1882-1916): GENIO E MEMORIA
Mostra molto interessante, che fa conoscere un Boccioni anche molto diverso da quello futurista solitamente conosciuto ed apprezzato. Una mostra molto ben strutturata e documentata.
A cento anni dalla morte di Umberto Boccioni (1882-1916) Milano celebra con una grande mostra l’artista del Futurismo, indiscusso protagonista dell’Avangiardia italiana. La sua geniale soluzione nel rappresentare visivamente il movimento e le sua ricerca sul rapporto tra oggetto e spazio hanno influenzato fortemente le sorti della pittura e della scultura del XXI secolo.
Un’occasione unica per scoprire i più importanti dipinti e sculture dell’artista, ma anche dei principali protagonisti della cultura a lui contemporanea, insieme ad un’ eccezionale selezione di 60 disegni di Boccioni provenienti dal Castello Sforzesco di Milano. Ricca di novità, la mostra racconta il percorso artistico di Boccioni, la sua fama internazionale e la sua attività milanese, alla luce anche di inediti documenti riemersi.
Frutto di un progetto di ricerca curato dal Gabinetto dei Disegni della Soprintendenza del Castello Sforzesco, la mostra è prodotta e organizzata da Castello Sforzesco, Museo del Novecento e Palazzo Reale con la casa editrice Electa, e presenta circa 280 opere tra disegni, dipinti, sculture, incisioni, fotografie d’epoca, libri, riviste e documenti.
In mostra si potranno ammirare opere provenienti da importanti istituzioni museali e collezioni private di tutto il mondo, tra cui la Pinacoteca di Brera, le Gallerie d’Italia di Milano, la Camera di Commercio di Milano, la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, la collezione Gianni Mattioli, la Peggy Guggenheim Collection di Venezia, la Collezione Barilla di Arte Moderna, il Museo Cantonale d’Arte di Lugano, il Metropolitan Museum of Art di New York, e Getty Foundation di Los Angeles, il Musée Picasso e il Musée Rodin di Parigi, l’Osaka City Museum of Modern Art, il Kunsthistorisches Museum di Vienna.
Il progetto si avvale inoltre della collaborazione scientifica dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze
Grazie ad un inedito taglio critico, Umberto Boccioni. Genio e memoria offrirà un percorso selettivo volto a far riemergere le fonti visive che hanno contribuito alla formazione artistica e all’evoluzione dello stile di Boccioni.
Cuore della mostra, sviluppata in ordine cronologico e per nuclei tematici, l’eccezionale corpus di disegni di Boccioniprovenienti dal Castello Sforzesco, insieme a scritti e documenti inediti riscoperti di recente, nei quali il percorso stilistico dell’artista è riconoscibile in tutte le sue fasi di maturazione: dalla formazione divisionista, simbolista ed espressionista, che guarda nel contempo alla tradizione classica, rinascimentale e barocca e alle coeve correnti figurative europee, fino all’affermazione del Futurismo.
I disegni preparatori e i documenti esposti saranno affiancati alle opere pittoriche e plastiche di Boccioni e ad alcuni modelli che li hanno influenzati, esempi a volte inaspettati di una cultura figurativa che spazia dal XV secolo alla contemporaneità (Giovanni Ambrogio De Predis, Albrecht Dürer, Sir Frederic Leighton, Jacques Emile Blanche, Giacomo Balla, Giovanni Segantini, Gaetano Previati, Carlo Fornara e altri ancora).
Sarà Boccioni stesso ad introdurre il visitatore nel percorso della mostra, che apre simbolicamente con il suo celebreAutoritratto proveniente dalla Pinacoteca di Brera, esposto al centro della prima sala per rendere visibile anche l’Autoritratto presente sul retro.
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