martedì 31 dicembre 2013

Cinema: L'hobbit - la desolazione di Smaug



Il secondo capitolo modifica e incupisce molto la storia originale,

Bilbo, Gandalf e i 12 nani capitanati da Thorin Scudodiquercia procedono il loro viaggio tra ragni giganti, uomini orso e il fondamentale incontro con gli elfi silvani di Legolas. Ad un passo dalla meta però Gandalf è costretto a separarsi dalla compagnia per affrontare prove più importanti da solo, mentre i nani e Bilbo giungono a Pontelagolungo, alle pendici del monte in cui riposa il drago Smaug. Determinato a riprendere quel che è suo Thorin Scudodiquercia non attende Gandalf e decide di procedere da solo inviando come pattuito Bilbo a rubare l'Arkengemma dal drago dormiente.
È una lotta titanica (ma straordinaria per gli spettatori) quella tra Peter Jackson e il testo originario dell'autore che per la seconda volta ha impavidamente scelto di adattare, costruendo da sè una montagna ancor più impervia che in precedenza. Se infatti la trilogia Il signore degli anelli, comprimeva tre libri in tre film, brillando per come la capacità di sintesi non asciugasse i momenti più importanti della loro forza, Lo hobbit dilata un libricino in tre film. Invece che selezionare, comprimere e scartare Jackson aggiunge, crea e arricchisce, in una sfida impossibile per essere allo stesso livello del materiale di partenza. E in questo secondo film, le creazioni del regista sono decisamente più evidenti che nel primo.
L'obiettivo delle aggiunte e delle mille piccole modifiche è rendere effettivamente Lo hobbit un prequel a Il signore degli anelli. Il libro fu scritto prima ma, pur facendo da base per alcuni presupposti e qualche evento, non è effettivamente collegato in ogni sua parte alla trilogia che sarebbe stata pubblicata quasi 20 anni dopo. Cinematograficamente invece Jackson rilegge Lo Hobbit di Tolkien e lo mette in scena con il senno di poi, iniettando premonizioni, epifanie e imbastendo scontri preparatori alla grande guerra dell'anello. In un certo senso quell'integrazione che non è presente nei libri la ricrea nei film, adattando molto anche i toni. Là dove Tolkien usava la matita leggera, Jackson appesantisce il tratto, non solo attraverso la prefigurazione di eventi futuri (che gli spettatori hanno visto nella trilogia precedente) ma anche rappresentando gli elfi già cupi e torvi come durante la guerra dell'anello o rifiutando il favolismo che contraddistingue il libro. Sicuramente ne guadagna in coerenza tutta quella che sarà un'esalogia ma in certi punti si avverte qualche caduta di stile o strumento stonato rispetto al resto (la storia d'amore interraziale decisamente non sembra in linea con l'idea di romanticismo tolkeniana).
Qualsivoglia dubbio o perplessità scompare però quando entra in scena il villain del racconto: Smaug, il drago. Non è solo la potenza della figura, l'acume dei dialoghi che scambia con Bilbo e la perfezione della resa grafica ma proprio la capacità straordinaria che da tempo riconosciamo a Peter Jackson di non fallire l'obiettivo più importante e saper manipolare il cinema per creare un'atmosfera epica ed emozionante, centrando così l'unico obiettivo che conti davvero. Tutto il meglio delle idee e delle trovate di La desolazione di Smaug si trovano assieme al tesoro dei nani, nascoste sotto una montagna sconfinata di monete d'oro con questo carismatico cattivo, le cui dimensioni ci sono suggerite con grandissima intelligenza filmica facendo muovere cumuli d'oro molto lontani tra loro e la cui pancia s'illumina prima di sputare fuoco.
In quell'antro suggestivo, così agognato per un film e mezzo e così stupefacente nella sua immensità, questo secondo film trova se stesso e l'epica migliore, riuscendo a convincere della bontà generale dell'operazione. Come già Un viaggio inaspettato anche questo secondo film arriva in alcuni cinema in HFR (oltre che in 3D), ovvero a 48 fotogrammi al secondo invece dei tradizionali 24, soluzione scelta dal regista per la maggiore qualità dell'immagine. Di contro però l'estrema fluidità di un sovranumero di fotogrammi è inizialmente fastidiosa e fa somigliare l'immagine filmica a quella televisiva, risultando in un'impressione di scarsa qualità. In realtà è il contrario e il senso di fastidio è dovuto all'abitudine che abbiamo per i 24 fotogrammi al secondo, abitudine che comunque già nella seconda metà del film non si avverte più.

condivido appieno il giudizio critico. il film è peraltro bello e godibile, se si riesca a dimenticare il libro

lunedì 30 dicembre 2013

Campodolcino - Madesimo

Mini Vacanza di 3 notti (2,5 gg di sci) contrassegnata da una serie di contrattempi legati al maltempo. Poteva andare meglio.





















domenica 22 dicembre 2013

Football Americano : Finale Campionato Italiano Youth: Seamen - Warriors 71-6



Partita senza storia, dominata dai Seamen come tutte le altre in stagione.
Matteo entra nel 4 quarto, ma si vede che non è li.
Per lui è l'ultima partita di Football Americano.


sabato 21 dicembre 2013

Van Gogh Alive - the experience


Vanno di moda queste esposizione multimediali. Io sono un po perplesso: ingrandendo e aggiungendo della musica si toglie alla centralità dell'opera. 
All'ingresso mi sembra di essere alla mostra "The visitors" all'Hangar Bicocca. MA quella era molto più emozionante.

venerdì 20 dicembre 2013

milonga: Comunavez

finalmente una serata normale alla Comuna, dopo gli eccessi, in un senso e nell'altro, delle due ultime volte. Musica carina, gente in numero sufficente per poter scegliere ma senza ressa.
Arrivato con la testa altrove ci ho messo piu di un ora per entrare nella musica, srecando delle belle tande. Alla fine ho ballato bene con Marisa e Francesca. Poi via.

giovedì 19 dicembre 2013

cinema: L'ultima ruota del carro



Il melodramma mascherato da storia nazionale, animato dall'energia di Germano, è il miglior Veronesi
Gabriele Niola      *  *  *  1/2  -

Ernesto Fioretti, figlio di tappezziere romano, tifoso della Roma, bambino, poi ragazzo, poi uomo e infine anziano per nulla diverso da qualsiasi altro italiano della sua età, attraversa 30 anni di storia del paese tra fatti personali e sociali: dominio e fine dei socialisti, ascesa berlusconiana, sogni di gloria di amici che non disdegnano di sporcarsi le mani o rifiutano di lavorare, amore sincero per la compagna di una vita e inevitabili malattie.
Per il suo film più audace, dotato di maggiori aspirazioni e nettamente più riuscito, Giovanni Veronesi è partito dal più casuale, umano e popolare degli spunti: la vera vita di Ernesto Fioretti (che appare brevemente nel ruolo del sacrestano), autista suo e di molti altri registi e attori del cinema italiano. Fioretti non ha avuto un'esistenza particolarmente eccezionale (questo è parte della forza della trama), come tutti ha attraversato le diverse fasi della storia italiana, come pochi (o almeno così vuole raccontare il film) ha vissuto gli alti e bassi della propria vita in coincidenza con gli alti e bassi del paese.
Di certo nel raccontare questa vita L'ultima ruota del carro procede con trovate ed espedienti di grana grossa, non vuole mai fermarsi sulle sottigliezze nè è interessato a una ricerca intellettuale sulle molte fasi politiche ed economiche che scandiscono i tempi del racconto (assieme alle partite dell'Italia e le formazioni della Roma, a ribadire una prospettiva assolutamente anti intellettuale). Non vuole operare nemmeno ponderate valutazioni sociologiche nè tantomeno catturare lo "spirito italiano", l'interesse degli autori appare essere umano, un amore sconfinato per gli ultimi e la loro ingenua semplicità, il sentimento principe della tradizione della commedia italiana (specie di quella più ambiziosa) che, cosa rara, stavolta appare sincero e coinvolgente. I semplicismi che da sempre vediamo nel cinema di Veronesi stavolta sono supportati da uno sguardo affettuoso e innamorato delle piccole cose sconosciuto ai precedenti film del regista.
Animato da una straordinaria energia vitale che scaturisce principalmente dal corpo energetico di Elio Germano, protagonista assoluto non tanto per ruolo o minutaggio quanto per capacità di far orbitare intorno a sè qualsiasi altro personaggio e condurre anche le scene più ordinarie con un afflato emotivo non comune, L'ultima ruota del carro vuole fare un racconto sentimentale più che cronachistico del periodo preso in esame, punteggia la trama con riferimenti precisi (dal ritrovamento del cadavere di Moro alle monetine lanciate a Craxi) e cerca di portare in scena in ogni istante ciò che tutto questo potesse significare per le persone più che i fatti. Questo tratto (il più "hollywoodiano" del film) è senza dubbio il meno riuscito, populista e non popolare, contro tutti i potenti in quanto tali e a favore della povera brava gente a prescindere e innamorato genericamente della grande arte simboleggiata dallo stereotipico pittore pop (sono più feroci, calzanti e stimolanti da questo punto di vista i molti altri film italiani che nell'ultimo decennio hanno rielaborato e raccontato gli anni '70, spesso appoggiandosi al corpo esile, perfetto per l'epoca, di Elio Germano). Al contrario quando il riflettore si sposta su Fioretti e il film rivela la sua ossatura di melodramma (non mancano i classici del genere come l'ospedale) le scene si fanno più ariose e anche il punto di vista schiacciato verso il basso, verso cioè le ultime ruote del carro, sembra davvero il migliore, l'unico buono per mettere in scena la vita per come si svolge, nel suo banale essere coinvolgente. 
È quindi innegabile che una squadra solo parzialmente rinnovata abbia beneficiato molto al regista e sceneggiatore toscano. Il lavoro del solito Ugo Chiti e di Filippo Bologna (che hanno scritto con Veronesi la storia non senza un occhio ad alcuni punti di forza di C'eravamo tanto amati), la fotografia desaturata di Fabio Cianchetti (molto in linea con la maniera in cui il nostro cinema sta rappresentando quegli anni, tra macchina a mano e focale lunga) e infine il montaggio di Patrizio Marone (un esperto del genere già apprezzatissimo per il ritmo impresso alla serie Romanzo Criminale), mettono in scena l'epopea semplice e priva d'ambizioni di Ernesto Fioretti con un afflato sconosciuto ai precedenti film di Veronesi, lasciando emergere quel buono che in passato rimaneva schiacciato da una messa in scena sciatta e svogliata. Non che lo stile del regista non sia comunque riconoscibile ma la nuova veste per un nuovo tipo di storia (mai Veronesi aveva voluto essere così serio con i suoi film) è innegabilmente ben tagliata.

il film mi ha detto poco. racconta una storia cosi normale da non poter neanche immedesimarsi. Delusione

martedì 17 dicembre 2013

Balletto: Serata Ratmansky - Teatro alla Scala

Serata Ratmansky

RUSSIAN SEASONS




Coppia in arancione / Coppia in bianco
Svetlana Zakharova - Andrei Merkuriev
Coppia in rosso
Virna Toppi - Christian Fagetti
Coppia in verde
Vittoria Valerio - Carlo Di Lanno
Coppia in blu
Nicoletta Manni - Antonino Sutera
Coppia in bordeaux
Stefania Ballone - Federico Fresi
Coppia in viola
Denise Gazzo - Maurizio Licitra

CONCERTO DSCH
Svetlana Zakharova - Carlo Di Lanno
Stefania Ballone - Antonino Sutera - Federico Fresi
e il Corpo di Ballo del Teatro alla Scala
OPERA
Beatrice Carbone - Roberto Bolle
Emanuela Montanari - Mick Zeni
e il Corpo di Ballo del Teatro alla Scala



La Scala è sempre un amozione forte. Dei tre balletti ho preferito Concerto DSCH mentre gli altri due mi hanno lasciato più indifferente.
Bellissimo stare nel palco e far finta di essere nell'ottocento..

lunedì 16 dicembre 2013

milonga: Biko con concerto Pablo Andrade

Serata a fasi alterne: il chitarrista non mi è piaciuto (ne a nessuno di quelli che ho interpellato) e suonava dei pezzi di difficile ballabilità.
Quando invece alla consolle c'era Auslander tutto bene.
Ballato tanto e fatto troppo tardi (2:07)
Ricordo in particolare una signora vestita di nero (con cui avevo gia ballato) e Mapi, veramente speciale.

lunedì 9 dicembre 2013

milonga: Biko - tj Aurora

Serata no.
Arrivato molto stanco, trovato ballerine non adatte, musica al limite del ballabile (e talvolta oltre).
Andato via, come molti altri, prima dell'1.

venerdì 6 dicembre 2013

milonga: Spazio Aurora Rozzano

Che la serata sarebbe andata male lo si doveva capire dagli indizi. Sulla tangenziale a mezzanotte ho fatto la coda..
il posto è veramente in capo al mondo, difficile da raggiungere.
il posteggio è mezzo vuoto ed anche questo doveva farmi capire che qualcosa non andava, ma ormai ero li..
morale: dentro ci sono tre coppie che ballano e nessun altro arriva fino all'una, ora in cui mi rimetto il cappotto e me ne vado, senza neanche essermi cambiato le scarpe.
Serata persa, peccato, e dispiacere anche per Tamara.
Ma la cosa era troppo estrema e forse anche il periodo non era l'ideale.

giovedì 5 dicembre 2013

lunedì 2 dicembre 2013

milonga: gotan Night Comuna + Biko

ho provato a tornare alla Comuna per nostalgia della musica di Punto y Branca. Che è sempre bella e vale la pena di ascoltarla. Ma la serata.. sono stato un'oretta, fino alle 23:30. A quel momento ballavano tutte le coppie in sala: 8...
sono riuscito giusto a fare una tanda con una signora di origine Francese poi sono scappato al Biko.. non posso sprecare la mia unica serata di ballo della settimana..

A Biko c'era invece il solito casino; anzi, anche più del solito, ed è rimasto fino alla Cumparsita di chiusura. Per cui la qualità del ballo ne ha risentito, ma ho ballato tanto, tutto il possibile direi (tranne le milonghe). Molte novità di livello vario, mai eccelso, ed alcune conferme molto piacevoli.

andato a casa insolitamente tardi, verso le 2.


lunedì 25 novembre 2013

milonga: Biko

Serata bella, ballato tanto e anche con brave ballerine, ma manca un quid...
forse bisogna provare a cambiare, per una volta.

sabato 23 novembre 2013

milonga: Pensalovien per Comunavez

Troppa gente: non si riusciva a ballare, a camminare, a prendere da bere. Mi sono talmente esasperato che sono scappato dopo un'ora.
mai più di sabato...

lunedì 18 novembre 2013

milonga: biko

Tutto nella norma, anche se ho ballato meno di quanto avrei voluto.
Super tanda con Mapi (è proprio un piacere balare cone lei) e bella tanda con altra signora già vista tempo fa.
Altre tande carine ed una sola fregatura, ma neanche grave.

venerdì 15 novembre 2013

teatro: Aspettando Godot


ASPETTANDO GODOT
di Samuel Beckett copyright Editions de Minuit – Paris
traduzione di Carlo Fruttero
regia di Jurij Ferrini
scenografia Samuel Backett
costumi Michela Pagano
con Natalino Balasso, Jurij Ferrini, Angelo Tronca, Michele Schiano di Cola
produzione U.R.T - Teatria

Aspettando Godot (debuttato nell'autunno del 2012) è il frutto di un incontro singolare fra Natalino Balasso e Jurij Ferrini, il risultato di un'intesa scenica molto forte, nata durante la tournée de I Rusteghi di Goldoni, spettacolo di grande successo prodotto dal Teatro stabile di Torino e firmato da Gabriele Vacis.

Abbiamo cercato a lungo un testo che potesse rappresentare una coppia comica così equilibrata e la scelta si è indirizzata sul grande capolavoro di Beckett. I protagonisti di Aspettando Godot non hanno più nulla da dire e nulla da fare e involontariamente raccontano la loro misera attesa di un destino (migliore?) solo perché si trovano in un teatro davanti ad un pubblico, sera dopo sera.
In due atti strutturalmente molto simili passano sulla scena Pozzo e il suo servo Lucky e alla fine di ogni giorno un misterioso ragazzo annuncia che "il signor Godot non arriverà oggi, ma di sicuro domani". Così che i due protagonisti si appenderanno nuovamente a una sempre più flebile speranza di ottenere dal signor Godot qualcosa di nuovo o almeno diverso…
Si tratta quindi di un teatro ben poco assurdo ma semmai estremamente allegorico, almeno da quando l'assurdità della vita ha di gran lunga superato il non senso apparente di ciò che viene detto in scena. In questa versione di Aspettando Godot - ci dicono gli spettatori - si ha la sensazione d'aver capito qualcosa in più, divertendosi molto. Questa è per noi la migliore recensione che si possa ricevere.
Jurij Ferrini

lunedì 11 novembre 2013

milonga: Biko

dopo due settimane di assenza ritorno. Tutto ok, solo un po poche ballarine rispetto al solito.
Ma gran divertimento

domenica 10 novembre 2013

FAULT LINES by Allora & Calzadilla

ALLORA & CALZADILLA. FAULT LINES
Palazzo Cusani, Milano
22 Ottobre - 24 Novembre, 2013


Le opere di Allora & Calzadilla nascono dalla combinazione sperimentale di elementi e linguaggi diversi – scultura, fotografia, performance, musica, suoni e video – alla ricerca del punto di incontro tra leggerezza e complessità da cui avventurarsi nell’esplorazione delle geografie psicologiche, politiche e sociali della cultura contemporanea globalizzata. Per loro l’arte è un pretesto per indagare concetti chiave del nostro presente, quali l’identità nazionalità, la democrazia, il potere, la libertà, la partecipazione e i cambiamenti sociali.

Da questo approccio nasce la scelta del titolo per la mostra con la Fondazione Nicola Trussardi: Fault Lines, letteralmente linee di faglia, quelle fratture del suolo che si formano nel punto di incontro tra due masse rocciose in movimento, linee frastagliate, instabili, che nascondono fragilità profonde, pronte ad arrivare da un momento all’altro al punto di rottura. In questo caso le Fault Lines diventano punto di partenza per un’indagine del concetto di confine, di quelle linee fisiche e simboliche che separano due mondi, facendosi limite, demarcazione, catalizzatore di tensione.
Come etnografi post-coloniali, Allora & Calzadilla scandagliano limiti e contraddizioni del mondo globale, combinando nei loro lavori frammenti di una società in continua trasformazione di cui rileggono gli eventi per tracciare mappe e percorsi dove tempo e spazio si fondono in potenti metafore. Con un gioco di continue sovrapposizioni e sostituzioni, cambiamenti repentini e rotture, la coppia di artisti compone un mosaico di geografie instabili ed equilibri precari contemporaneamente paradossali e rivelatori, in cui il corpo è terreno di confronto, di scontro, di scambio di energia, e lo strumento con cui connettersi al resto del mondo.

Nei magnifici spazi di Palazzo Cusani Allora & Calzadilla presentano un’imponente selezione di lavori recenti, per lo più inediti in Italia, e nuove produzioni realizzate appositamente per la mostra. Dal maestoso Salone Radetzky – la sala da ballo con stucchi e affreschi originali intitolata al generale austriaco che nel Palazzo ebbe il suo quartier generale fino alle Cinque Giornate di Milano – alla Sala delle Allegorie – con i suoi dipinti e soffitti affrescati raffiguranti scene e simboli della mitologia greca  –  si susseguono sculture sonore, performance, video e immagini che si intrecciano con la storia del luogo e con la cronaca dei nostri giorni, destabilizzandole e riordinandole secondo un ritmo narrativo che alterna sorpresa, poesia, umorismo ed epifanie.




Mostra (mostra?) di difficile lettura, con delle cose interessanti ed altre molto meno, od incomprensibili. Siamo un po al limite dell'arte contemporanea intelleggibile da me.


venerdì 8 novembre 2013

cinema: La prima neve



Pergine, piccolo paese del Trentino ai piedi della Val de Mocheni. E' lì che è arrivato Dani, fuggito dal Togo e poi nuovamente costretto a fuggire dalla Libia in fiamme. Dani ha una figlia piccola (che gli ricorda troppo la moglie morta per volerle davvero bene) e una meta: Parigi. In montagna, dove ha trovato lavoro presso un anziano apicoltore, fa la conoscenza di Michele, un bambino che soffre ancora per la perdita improvvisa del padre.
Andrea Segre prosegue con questo suo secondo film di finzione dopo Io sono Li la personale ricerca del rapporto tra gli esseri umani e i luoghi che ne ospitano le vicende sia che vi appartengano dalla nascita sia che vi siano giunti per i rovesci della sorte.
Come Shun Li Dani è arrivato in un'Italia di cui non conosce le tradizioni ma, a differenza della donna cinese, non subisce le offese del razzismo strisciante. Perché questo film di Segre non vuole ripercorrere le orme dell'opera precedente. Dani l'emarginazione ce l'ha dentro come il piccolo Michele ed è data dal dolore profondissimo di una perdita, di un lutto che sembra impossibile elaborare. Hanno a fianco persone che vorrebbero aiutarli (l'anziano apicoltore per l'uno,la madre per l'altro) ma è come se avessero eretto un muro a difesa della loro sofferenza. Il bosco finisce così per diventare non il luogo fiabesco dove incontrare pericolosi lupi (qui semmai a fare danni è un orso) ma lo spazio, tra luci ed ombre, dove trovare una solitudine che può farsi cammino comune. "Le cose che hanno lo stesso odore debbono stare insieme" dice il vecchio a proposito di legno e miele. Dani e Michele sono impregnati dello stesso odore della deprivazione che li porta a pensare di non essere più capaci di amare coloro che hanno invece più bisogno di loro. Potrebbero avere entrambi bisogno di quella prima neve che offra una nuova visione del mondo, esteriore ed interiore.
Massimo Troisi, dopo il successo di Ricomincio da tre affermava, con la saggezza che lo contraddistingueva, di non voler fare il secondo film ma di voler passare direttamente al terzo. Perché una regola non scritta del cinema di finzione dice che se la prima opera è venuta bene la seconda non sarà altrettanto valida. La prima neve costituisce una delle rare eccezioni alla regola.

giovedì 7 novembre 2013

Milonga: Spazio A sala grande

Una scappata, più che altro per non stare in casa.
Scelta musicale lontana dai mie gusti, mi aspettavo una cosa diversa.
Non in formissima ho ballato cosi cosi con Annina, male con una sconosciuta (che ballava male anche lei, peraltro) e finito benino con un'altra signora.
All'una sono scappato
Bilancio sufficiente

mercoledì 6 novembre 2013

Cinema: Anni Felici



Nell'anno del referendum sul divorzio, l'Italia di Daniele Luchetti è una famiglia romana in preda al fervore dei tempi tra aspirazioni artistiche d'avanguardia, comodità piccolo borghesi, istanze femministe e amore libero. Guido è un padre sui generis, pittore e scultore, elettosi rappresentante della nuova arte concettuale più per adesione alla moda del periodo che per un'autentica necessità artistica. Di giorno, nel suo laboratorio negli orti della Lungara, trasgredisce le convenzioni sociali modellando i corpi di ragazze accondiscendenti con i nuovi materiali imposti dall'avanguardia, di sera impartisce lezioni sul bello nell'arte dopo la rivoluzione concettuale ai due figli di dieci e cinque anni, Dario e Paolo. La moglie Serena, figlia benestante di solidi commercianti della piccola borghesia cittadina, è una donna semplice attraversata però da una profonda inquietudine che la porterà dall'amore devoto verso un marito libertino alla scoperta del femminismo come riscatto del sé e come esperienza di un sentimento amoroso diverso.
Quest'ultimo film di Luchetti aveva un titolo provvisorio, Storia mitica della mia famiglia capace di definire i margini di un'operazione biografica (storia della mia famiglia) trasfigurata dalla memoria di sentimenti sedimentati nel tempo (storia mitica). Nel corso della lavorazione, il gesto coraggioso della dichiarazione auto-biografica ha lasciato il passo a un titolo nostalgico, Anni felici, che suona come giudizio amaro per una storia famigliare contrastata che il regista, al tempo testimone bambino, avrebbe voluto cogliere in tutta la sua contradditoria vitalità.
In una delle prime inquadrature del film, affisso su di un muro, fa capolino un manifesto elettorale che recita così: "Le donne della famiglia Cervi dicono di NO". Dichiarazione misteriosa se non fosse il 1974, anno del referendum abrogativo della legge che quattro anni prima aveva istituito in Italia il divorzio. A dire NO sul quel manifesto è l'autorevolezza delle donne di una tristemente famosa famiglia anti-fascista i cui uomini (i sette fratelli Cervi) furono fucilati dai fascisti nel '43 (Irnes Cervi, moglie di Agostino, molto si spese per affermare i diritti delle donne). Questo piccolo dettaglio, sullo sfondo murale di un dialogo coniugale, definisce il contesto sociale della storia di una famiglia attraversata per quel che la riguarda dall'impeto dei tempi (divorzio, femminismo, arte concettuale, trasgressione matrimoniale, amore lesbico...), vissuto come di rimbalzo, attori involontari ed etero-diretti.
Gli Anni felici di Luchetti sono però anche gli "anni di piombo", quelli - per rimanere nel '74 - della strage a Piazzale della Loggia a Brescia (28 maggio), della bomba sull'Italicus (4 agosto) della crisi energetica e dell'austerità. Sorprende un po' che la Roma di Guido e Serena non risenta minimamente di quell'atmosfera, riportando invece una dimensione dinamica, una scena artistica vissuta ardentemente tra gallerie d'arte e triennali milanesi, molto colorata e trasgressiva, come voleva essere. Il motivo è presto detto: tutti gli eventi sono filtrati dalla memoria emotiva di un bambino di dieci anni, Dario (alter-ego del regista), figlio e testimone muto di quella stagione dalla quale ha voluto espungere il contesto politico per isolare quello famigliare e sociale (l'avvento del femminismo). Se volessimo considerare questo film come il terzo passaggio di un'ideale trilogia, vien facile dire che il racconto storico-politico si sia esaurito in Mio fratello è figlio unico, mentre quello sull'oggi da La nostra vita. Il terzo atto quindi si insinua in un'altra dimensione che non è più né storica né politica, ma potremmo dire emotiva e personale.
Ecco, allora che s'arriva a una novità, anche estetica, non indifferente per Luchetti. Sebbene Anni felici sia un film d'invenzione, la storia è quella della sua famiglia, ed il vero e il falso si intrecciano uniti dal filo rosso dei ricordi emozionali.
Ad avvalorare questa premessa è la scelta della voce-off: a "recitarla" è lo stesso Luchetti che impersona il personaggio di fantasia, il bambino Dario (suo alter-ego) che a distanza di anni racconta gli eventi del '74. Ecco che subentra nel cinema di Luchetti la "prima persona" nella formula, già scandagliata in letteratura dell'auto-fiction, anticipata dal Caro diario di Nanni Moretti, suo amico e maestro.
Luchetti è un regista dalla vocazione narrativa tradizionale, eppure ha saputo dimostrare soprattutto negli ultimi film una certa curiosità verso altri linguaggi ed esperienze cinematografiche. Ad esempio, l'idea dei dialoghi fuori fuoco, sporchi e sovrapposti, vicina al "cinema del reale" di Garrone, hanno influenzato l'estetica meno convenzionale di Mio fratello è figlio unico e La nostra vita. L'avvento della prima persona, l'uso dei filmini famigliari (anche se qui ricostruiti) in super 8, il discorso legato al femminismo, a noi hanno fatto pensare alle esperienze dell'altro cinema italiano, documentario e di montaggio. Chissà de Lucchetti l'ha in qualche modo assorbita.
A parte i riferimenti, involontari o meno, Anni felici si pone come un film solidamente convenzionale (forse un po' troppo) e saldamente narrativo, che molto s'appoggia sulla perfomance dei due attori protagonisti. Kim Rossi Stuart, com'è del suo metodo recitativo, trasforma in modo autoriale il personaggio nella somma delle sue complessità, dando spessore e corpo a una figura sulla carta fragile, tutta schiacciata da un'ossessione artistica fasulla e da un narcisismo quasi adolescenziale. Micaela Ramazzotti, istintiva e fisica, sembra affidarsi alla scrittura, un po' come il suo personaggio, scoprendo poi una profondità emotiva e un'istanza di genere impreviste.
C'è però qualcosa che non torna in Anni felici, anche se tutto sembra essere al suo posto. Non è facile capire cosa. Forse il fatto che Luchetti non è riuscito a prendere, anche legittimamente, la giusta distanza. È troppo dentro per vedersi da fuori. Forse anche lui è vittima a posteriori di un narcisismo represso, tant'è che il film chiosa con l'affermazione urlata del proprio Io. Dei suoi ultimi tre film, questo è forse il più fragile ma certo comunque autentico e onesto, anche solo per aver avuto il coraggio di ri-affermare che per lui il personale è politico.

sabato 2 novembre 2013

Zucca Tango Festival - serata del sabato

Si ritorna allo Zucca.
Ma la serata non è la stessa, non c'è la stessa energia. Molto è imputabile a me, non ci ero molto con la testa, ma anche la musica e la situazione non erano più le stesse. Forse la stanchezza delle ballerine, in pista da tre giorni.
Morale: non ho ballato bene, e anche le ballerine non erano quelle di giovedi. Partito bene con un Ascolana, ricordo poi una sigonra di Venezia ed un di Torino, che si lamentava giustamente dei Milanesi che non invitano.
Finale perà in bellezza con una ragazza francese veramente fantastica, che mi ha salvato la serata.
Dopo di che a nanna (2:30)

venerdì 1 novembre 2013

Hangar Bicocca: Ragnar Kjartansson - The visitors

Musica visuale. non ho parole per descriverla, ma solo tante emozioni in testa.


Villa Necchi Campiglio + Jole Veneziani


Zucca Tango Festival: Serata di Apertura

si entra e si percepisce subito l'energia che fluisce. Forte, fa passare subito la stanchezza o il malumore. Al mixer SuperSabino (ottimo) a cui segue il ben conosciuto PuntoyBranca.

Ballerine di alto livello con cui è un vero piacere ballare (chissà se è lo stesso per loro, speriamo..).
L'ultima è una ragazza russa, venuta apposta da Mosca. Bravissima, un piacere da portarsi a casa.


martedì 22 ottobre 2013

Milonga: Biko... al buio

Strana esperienza.
La serata inizia normalmente, con delle belle tande, Sonia in particolare.
Poi, appena dopo mezzanotte, la luce va via. Niente luci, niente impianto sonoro.
Auslander non si perde d'animo e fa uscire la mucisa dalle casse del suo PC..
la musica era a basso volume, si sentivano i rumori dei piedi sul parquet, tutti in silenzio.
Ho provato a ballare anche io, cosi cosi.
Poi, mezz'ora dopo, li ho lasciati li.


domenica 20 ottobre 2013

Cinema: Cattivissimo me 2


Per l'ex super cattivo Gru la vita è cambiata radicalmente. Ora nel suo orizzonte ci sono solo le tre dolci bambine che ha adottato e la conversione del laboratorio segreto dei Minion e del dottor Nefario in un'impresa legale di produzione di marmellate e gelatine. Per Nefario, però, la rinuncia alla cattiveria è un sacrificio troppo grande e, cuore e valigia in mano, se ne va al soldo di un altro padrone. Gru, invece, viene reclutato dalla vulcanica agente Lucy Wilde, della Lega Anti Cattivi, per fingersi il gestore di un negozio di dolciumi in un centro commerciale e smascherare così il criminale che sta per assoggettare il mondo ai suoi terribili scopi.
C'è tanto materiale narrativo dentro Cattivissimo Me 2, c'è la spy-story, la love-story, ci sono gli zombie, il vaudeville, c'è la bimba che vuole una mamma e il papà che non vuole che la piccola cresca. Un accumulo di materiale che, nonostante il montaggio sapiente, vivace ma non caotico, a tratti dà l'impressione di voler supplire con la quantità ad una qualità - quella dell'originale - difficilmente replicabile. Manca lo spettacolo di personaggi ebbri di egoismo come la madre di Gru o il viziato Vector, di fronte al quale il villain di questo capitolo appare decisamente più tradizionale e prevedibile. Manca, soprattutto, il dissidio interiore che lacerava il protagonista nel 2010, quando un tutù rosa, un paio di occhialetti rotondi e un berretto calato sugli occhi mettevano clamorosamente e improvvisamente in discussione la sua stessa natura e i principi sui quali si era costruito una carriera e un'esistenza, mescolando alla commedia un alto tasso di sentimento.
Eppure, nonostante queste mancanze si sentano, da cima a fondo, il secondo capitolo ha una forza comica irresistibile, una batteria inesauribile di gag e, ciò che più conta, una coerenza di fondo con il percorso precedente, pur presentandosi con gambe proprie, perfettamente in grado di sostenerne l'autonomia. Gru non è cambiato: è più fedele che mai alla scelta che ha fatto di dedicarsi alla paternità prima che al resto; e così non sono cambiate Margo, Edith e Agnes, che si sono limitate a crescere, ma non hanno smesso di unire le forze per offrire al padre ciò di cui ha bisogno, anche se ancora non lo sa.
All'interno di un quadro narrativo meno originale, e in gran parte ricalcato sulla sequenza del primo film, Cattivissimo Me 2 è dunque e comunque uno spettacolo che non annoia mai un minuto, che diverte senza se e senza ma, e ribadisce la felicità creativa delle coppie Chris Renaud-Pierre Coffin alla regia e Cinco Paul-Ken Daurio alla sceneggiatura.

venerdì 18 ottobre 2013

Cinema: Gravity


Gli astronauti Ryan Stone e Matt Kowalsky lavorano ad alcune riparazioni di una stazione orbitante nello spazio quando un'imprevedibile catena di eventi gli scaraventa contro una tempesta di detriti. L'impatto è devastante, distrugge la loro stazione e li lascia a vagare nello spazio nel disperato tentativo di sopravvivere e trovare una maniera per tornare sulla Terra.
Lo spazio non è più l'ultima frontiera, nel nuovo film di Cuaròn non c'è nulla da esplorare, si rimane a un passo dal nostro pianeta ma lo stesso la profondità spaziale continua a non essere troppo distante dalle lande desolate del cinema western, un luogo talmente straniante da confinare con il mistico, l'ultimo rimasto in cui esista ancora la concreta sensazione che tutto possa accadere, in cui si avverte la presenza dell'ignoto e quindi in grado di mettere alla prova l'essenza stessa dell'essere umani.
C'è tutto questo nel blockbuster con Sandra Bullock e George Clooney che Alfonso Cuaròn è riuscito a realizzare senza muovere un passo dalle convenzioni hollywoodiane, quelle che impongono l'inevitabile coincidenza dell'avventura personale con un mutamento interiore e il superamento del solito trauma radicato nel passato. Eppure dietro i dialoghi ruffiani e dietro una tensione obbligatoriamente costante (tenuta con una padronanza della messa in scena, tutta in computer grafica, che ha del magistrale ma non sorprende dall'autore di I figli degli uomini) non è nemmeno troppo nascosto uno dei film più umanisti di un'annata che ha visto il cinema statunitense proporre, a Cannes, anche la straordinaria storia di sopravvivenza individuale contro gli elementi (marittimi) di Robert Redford in All is lost.
La visione prettamente americana dello spazio, un luogo d'avventure in cui l'uomo deve combattere contro ogni avversità naturale, stavolta è fusa con quella promossa dallo storico rivale, il cinema sovietico degli anni '70, in cui lo spazio è il posto più vicino possibile alla metafisica, terreno di visioni interiori che diventano realtà e di incontro con il sè più profondo, fino a toccare anche l'idea di origine (o ritorno) alla vita di 2001: Odissea nello spazio in un momento di struggente bellezza, in cui il corpo di Sandra Bullock pare danzare con meravigliosa lentezza.
Per Cuaròn lo spazio può essere tutto questo insieme, allo stesso modo in cui il suo film può essere sia un blockbuster sia un'opera che cerca di toccare la profondità dell'animo umano, realizzata con una sceneggiatura densa di dialoghi e molto fondata sulla recitazione (come un film a basso budget) animata da una messa in scena interamente in computer grafica (da grande film di fantasia), un lungometraggio che più che essere di fantascienza pare d'avventura (nel senso classico del termine), in cui l'essere umano lotta in scenari naturali mozzafiato, nel quale anche solo un raggio di sole che entra dall'oblò al momento giusto può far battere il cuore.

lunedì 14 ottobre 2013

Milonga: Biko

duo d'eccezione in concerto al Biko Tango Club
da Buenos Aires in Tour Europeo 
Federico Mizrahi (pianoforte ) e Gustavo Battistessa (bandoneon) in un repertorio classico e autografo
prima e dopo
selezione musicale di tango argentino e non argentino
a cura di 
dj ausländer

Serata fantastica, scandita da tande molto belle e culminate con due delle mie ballerine preferite, Marisa e Mapi.
Due nella stessa serata è fin troppo, le belle sensazioni si mischiano.



sabato 12 ottobre 2013

Ballette: Milano Oltre - Sexxx

Elfo Puccini sala Shakespeare
ore 20.00
BALLETTO TEATRO DI TORINO 
SEXXX 
un balletto di Matteo Levaggi
musiche John Zorn, David Bowie, John Foxx, The Longcut
con Marco De Alteriis, Denis Bruno, Kristin Furnes, Manuela Maugeri, Vito Pansini, Viola Scaglione.
luci Fabio Sajiz
costumi Maria Teresa Grilli
produzione Balletto Teatro di Torino - Loredana Furno
co-produzione Lavanderia a Vapore - Collegno,
Festival MilanOltre 
durata 60’

Uomini e donne tutti sulle punte, corpi velati, grovigli vorticosi, voci sussurrate per una danza che «penetra senza pudore negli anfratti più nascosti del corpo, scava tra i muscoli per estrarre, con segno pornografico, il movimento». Le tre xxx di Sexxx alludono allo sguardo incensurato dello spettatore sulla danza e all'ossessione di Matteo Levaggi per la propria creazione: un flusso continuo di forti emozioni. Un balletto che pesta i piedi, sbraita come un indemoniato. L’importante è lasciare che la danza sia.
I sei ballerini del BTT danzano incessantemente per 60 minuti “incastrandosi come Lego” in un crescendo musicale che spazia da John Zorn, David Bowie, John Foxx, Ooioo ai The Longcut. Un successo già al suo debutto torinese nel febbraio 2013 che sarà presto un lungometraggio sotto la direzione di Davide Ferrario.


lunedì 7 ottobre 2013

Milonga: BIKO

biko, biko, biko.
lo so che mi ripeto, ma che ci devo fare?
altra bella serata, con un miglioramento di condizioni fisiche e psichiche veramente incredibile.
Parlato un po con Laura, ballato tanto con vecchie e nuove. Elisabetta(ottimo), Mapi, la sosia di Alba Rochvacher (ottimo+), Alina (insomma), ua ragazza alta che viene sempre ma con cui non avevo mai ballato, altra signora nuova.

bello

venerdì 4 ottobre 2013

Milano Oltre: Ballet Nationale de Marseille

Rassegna di balletto contemporaneo.

ORGANIZING DEMONS 
coreografia Emanuel Gat 
assistente alla coreografia Michael Lohr 
musica, luci, costumi Emanuel Gat 
con Katharina Christl, Malgorzata Czajowska, Yoshiko Kinoshita, Béatrice Mille, Valeria Vellei, David Cahier 
coproduzione Steps Festival de danse 2012 / Migros 
prima italiana 
durata: 30’ 



ÉLÉGIE 
coreografia Olivier Dubois 
assistente alla coreografia Cyril Accorsi 
luci Patrick Riou 
musica Richard Wagner Elegie WWV 93 en la Bemol, Francois Caffenne 

con Malgorzata Czajowska, Yoshiko Kinoshita, Ji Young Lee, 
Mylène Martel, Béatrice Mille, Valentina Pace, Valeria Vellei, David Cahier, Vito Giotta, Gabor Halasz, David Le Thai, Angel Martinez, Christian Novopavlovski, Julien Ramade, Diego Tortelli, Nahimana Vandenbussche, Anton Zvir 
coproduzione COD / Compagnie Olivier DUBOIS 
in collaborazione con MP2013, Capitale Européenne de la Culture 
durata: 50’ 

Doppio programma per il Ballet National de Marseille. In scena l’arte di Emanuel Gat, coreografo tra i più apprezzati a livello mondiale da un decennio. Il piacere di danzare per lui si colloca nell’incontro tra la linea, fluida, elegante e musicale e il punto di grande raffinatezza dove microscopici enigmi rendono più umana e percepibile la bellezza del suo lavoro. L’idea della danza in Gat è arte innata. Organizing Demons è un pezzo raffinato pur essendo forte, sensuale e allo stesso tempo audace. Segue Elegie la più recente creazione di Olivier Dubois, segnalato da Dance Europe nel 2011 come uno dei cento migliori danzatori al mondo, è considerato il coreografo enfant terrible del momento. Una forte intensità del gesto e la potenza dell’impegno fisico in scena connotano le sue creazioni. Cosa rende umani gli esseri umani? La capacità di alzarsi, l’urlo, la ribellione, la resistenza. 

Il primo balletto è carino, senza trama, ma ben ballato.
Il secondo è, per me inguardabile ed inascoltabile. Rumore di tuono per venti minuti, un corpo sballotato da figure nascoste.
volevo andarmene. mai visto niente di peggio

lunedì 30 settembre 2013

Milonga: Biko

Tre ore di pura distrazione.
Ballato con vecchie e nuove, senza troppo pensare. Divertito.

venerdì 27 settembre 2013

Cinema: Via Castellana Bandiera


Confronto tragico e lontano da qualsiasi purezza eroica, l'opera prima di Emma Dante ci lascia testimoni muti e agghiacciati

Samira ha tanti anni e un dolore grande: ha perso sua figlia, uccisa dal cancro e da una vita tribolata nella periferia di Palermo. Da sette anni la ritrova in un cimitero assolato e desolato, dove sfama cani e cuccioli prima di riprendere la strada di casa alla guida della sua Punto e a fianco di un genero ostile. Rosa ha una madre da lasciare andare e un passato da dimenticare a Palermo, dove accompagna Clara, la donna amata, al matrimonio di un comune amico. Inquieta e infastidita da una città da cui è fuggita anni prima, infila via Castellana Bandiera, un strada stretta e senza senso di marcia. In direzione ostinata e contraria arriva Samira e chiede il passo per raggiungere la sua casa a pochi metri dall'impasse. Contrariata e altrettanto risoluta, Rosa è decisa a mantenere la posizione. Irriducibili sotto il sole tenace di Palermo, Samira e Rosa si affronteranno in un duello che non contempla resa e retromarcia.
Di un uomo caduto morto in un duello non si penserà che "abbia dimostrato di essere in errore riguardo al proprio punto di vista", scrive Cormac McCarthy in "Meridiano di sangue". Allo stesso modo Emma Dante, regista teatrale che debutta al cinema, elude 'giustificazioni' o allineamenti, decidendo per il dicotomico senza stabilire una vittoria di una parte sull'altra o affermare quello che è giusto su quello che invece è avvertito come inopportuno. Rosa e Samira sono opposti che si osservano e si affrontano a una distanza limite. Figlia di un'altra madre e madre di un'altra figlia, sono selvagge votate alla distruzione vicendevole, corpi in stretto rapporto e dotati dello stesso corredo di dolore. La natura identica e testarda origina allora la tragedia, riflettendole geometricamente e impedendole a praticare la tolleranza e l'integrazione emotiva dell'altro. Calate in un clima 'pagano', che mette in scena le incomprensioni e le follie di una comunità, le protagoniste (si) ingombrano la strada del titolo e lasciano fuori campo il buco, un vuoto, uno strappo, una ferita 'non filmabile'. Oggetto di spettacolo diventa perciò la loro ostinazione all'immobilità. Schierate l'una di fronte all'altra come in un western classico veicolano pulsioni dissidenti e negative, infilando con via Castellana Bandiera il punto di non ritorno. Il duello, celebrazione dell'ordine sulle eventualità disgregative del disordine, nel dramma di Emma Dante genera al contrario una forza distruttiva che diventa espressione fondante della pulsione di morte dei suoi personaggi. Nessuno escluso. Non ci sono regole da stabilire (e da rispettare) in via Castellana Bandiera. Dove la forza produce un diritto e la gente abita lo stesso numero civico, c'è piuttosto da scommettere sul cavallo vincente. Acme del racconto, il duello made in Italy tra una Punto e una Multipla non risolve le tensioni create dalla narrazione ma le provoca definendo geometrie che si dispongono nella profondità delle protagoniste e da lì ripartono contaminando parenti, vicini, curiosi, avventori. Disagio e inesorabilità si distribuiscono frontalmente e si incarnano in donne incapaci di qualsiasi ricognizione, di qualsiasi compassione, di qualsiasi ripresa. Interpretato dalle efficacissime Elena Cotta e Emma Dante, 'affiancata' dalla Clara di Alba Rohrwacher, Via Castellana Bandiera è un film a imbuto che trascina idealmente e concretamente in un gorgo di smarrimento infinito i suoi personaggi. Confronto tragico e lontano da qualsiasi purezza eroica, l'opera prima di Emma Dante ci lascia testimoni muti e agghiacciati. Impossibilitati a intervenire inserendo la retromarcia per evitare la deriva e liberare la strada a un 'paese' bloccato e incapace di ripartire. Se non in direzione della collisione e del suo esito sciagurato.


lunedì 23 settembre 2013

Milonga: Biko

Riapre il Biko. Tutto immutato, posto, DJ, parquet.
La contemporanea apertura della Comuna e del Macao limita le presenze ad un numero onesto, ballabile.
Ho avuto particolare soddisfazione a ballare con una ragazza che sono sicuro mesi fa mi avesse fatto un pò di storie. Bene anche le altre fra vecchie e nuove.

sabato 21 settembre 2013

MITO: Serata di chiusura - Tango y mucho mas



Bella serata anche per "non addetti". Esibizioni, musica dal vivo, bandoneon, cantanti.
Ballato quais nulla ma divertito.
Con Gio e Betta



lunedì 16 settembre 2013

Milonga: Gotan Night alla Comuna

Grande ritorno della Gotan Night.
Tutto come si deve. La musica è sempre bella e il parquet perfetto.
Tante facce vecchie e nuove.
Ballato abbastanza con delle ballerine brave.


domenica 15 settembre 2013

MITO: Basilica di San Marco: Padre Davide da Bergamo


Padre Davide da Bergamo

Suonata
Elevazione
Gran Rondò
Suonatina per Postcomunio
Polonese
Alla Comunione
Ultima composizione (12 luglio 1863)
Suonatina per Offertorio
Sinfonia

Giancarlo Parodi, organo

Padre Davide da Bergamo (1791-1863), il frate musicista, amico di Mayr e Donizetti, trasferì nella musica d’organo il linguaggio del melodramma risorgimentale, il virtuosismo strumentale e le risorse sonore dell’orchestra.
Con lui si avviò il concertismo organistico italiano.

venerdì 13 settembre 2013

MITO: Mozart


Conservatorio “G. Verdi” di Milano
Sala Verdi
Wolfgang Amadeus Mozart

Ouverture da Le Nozze di Figaro K. 492

Concerto in re minore per pianoforte e orchestra K. 466

Ouverture da "Così fan tutte" K. 588

Concerto in la maggiore per pianoforte e orchestra K. 488

Orchestra da Camera di Mantova
Maria João Pires, pianoforte

lunedì 9 settembre 2013

Milonga: Comunavez dj Auslander

cito per cronaca, non ero nelle condizioni fisiche e psicologiche per apprezzare o meno la serata.
Peccato

venerdì 6 settembre 2013

Milonga: Che Bailarin

Prima uscita dopo le ferie. Arrugginito e un po seccato dal ritardo precedente.
Parlato molto e ballato molto poco e con poca fantasia.
Il posto in verità non mi piace un gran che, specie il tipo di gente che lo frequenta.
Ballato solo con Daniela e Sonia

Musica: Requiem around Requiem

Il Requiem di Giuseppe Verdi
in versione contemporary jazz
Giovanni Falzone Contemporary Orchestra
Giovanni Falzone, tromba, arrangiamenti e direzione
Joo Cho, soprano
Mansu Kim, baritono

operazione interessante ed a tratti bella. Io mi aspettavo "più" Verdi ed ho un po sofferto, ma il concerto è stato piacevole.
Tanta voglia di andar ea visitare il Cimitero Monumentale

giovedì 5 settembre 2013

Cinema: il fondamentalista riluttante


centro sta il giovane professore Changez Khan. Il sequestro di un suo collega americano fa precipitare la situazione. È proprio in questo momento delicato che Khan accetta di farsi intervistare dal giornalista americano Bobby Lincoln al quale decide di raccontare la propria vita di giovane professionista rampante nel campo della finanza, cooptato dal capo di un grosso studio newyorchese che ne individua le notevoli capacità. Nell'ambiente della upper class Changez sembra aver anche trovato l'amore nell'artista fotografica Erica. Tutto va bene per lui quindi fino a quando l'11 settembre 2001 cambia di colpo le prospettive. La sua vita comincia a mutare di segno: è diventato improvvisamente l'islamico da amare od odiare, non più una persona.
Chi ricorda il film collettivo 11.09.01 in cui si raccoglievano corti di eguale durata che facessero riferimento all'attentato alle Twin Towers non può aver dimenticato l'episodio diretto da Mira Nair in cui si raccontava di uno studente in medicina pakistano residente a New York scomparso dopo il crollo e sospettato di legami con Al Qaeda. Fino a quando il suo corpo non venne ritrovato e si capì che era morto nel prestare soccorso. Lì si trovano le radici di questo film che non mancherà di suscitare contrasti. A partire da uno del tutto interno al subcontinente indiano perché un'indiana si permette di girare un lungometraggio sulla cultura di un Paese confinante ma ostile (in cui il padre della regista era stato giovane). Tutto ciò non passerà senza polemiche. C'è poi la riflessione su come si può diventare integralisti vista non più attraverso il reclutamento nelle fasce più incolte della popolazione di una manovalanza pronta anche ad immolarsi. Changez proviene da una famiglia non più abbiente ma di classe medio alta. Ha un padre poeta con un suo seguito nel Punjab e si inserisce, grazie alle sue doti, in uno Studio di valutazione finanziaria che lo mette in contatto con settori del establishment newyorkese.
Più che nell'esplicito confronto/scontro/tentativo di comprendersi tra Changez e Bobby, la chiave di lettura del film sta nel sottoplot sentimentale. È proprio nel territorio apparentemente tutto da costruire del sentimento che si rivelano le crepe più insidiose destinate a far crollare un'integrazione possibile. Perché inizialmente il giovane pakistano deve compiere una sorta di mimesi nella relazione per cercare di far superare una difficile elaborazione del lutto. Si troverà amato, anche dopo l'11 settembre. Ma come diverso, quasi nonostante. Come se la colpa di alcuni si rovesciasse su tutti. Mira Nair non dimentica poi di sottolineare come l'eliminazione dal mondo del lavoro di migliaia di persone sia una forma di omicidio in guanti bianchi. Ce lo ricorda con una breve scena in cui il padre di Changez, uomo di lettere ma ben radicato nella realtà, gli fa notare come un sentimento di empatia possa nascere dal confronto diretto con la realtà. I licenziati invece sono solo numeri in una statistica. Così come un ostaggio eliminato brutalmente o un giovane ucciso accidentalmente possono essere immagini che il mondo potrà utilizzare per continuare ad alimentare l'odio oppure superficialmente dimenticare in fretta.

Gran bel film, teso e pieno di spunti di riflessione.

domenica 1 settembre 2013

Cinema: Elysium


Nella Los Angeles del 2154 l'umanità rimasta sulla Terra è un'unica grande classe operaia, che mescola criminali e lavoratori senza criterio, tutti tenuti a bada e dominati con pugno di ferro attraverso i robot da un'elite che da tempo è andata a vivere su una stazione orbitante intorno al pianeta chiamata Elysium. Su Elysium c'è la tecnologia per guarire da ogni malattia, c'è il verde, il benessere e il disinteresse per ciò che accade più in basso, sulla Terra, dove il resto dell'umanità lavora per mantenere la stazione.
Un giorno un operaio con precedenti penali ha un incidente nella catena di montaggio e viene esposto ad una quantità mortale di radiazioni. Gli rimangono più o meno 5 giorni di vita e l'unica tecnologia in grado di curarlo si trova su Elysium. Per arrivarci senza autorizzazione e senza essere abbattuto prima dell'atterraggio occorrerà fare accordi con i criminali.
Quella della divisione netta tra una piccola fetta di popolazione ricca e dotata di qualsiasi privilegio, che mantiene uno stile di vita spensierato sfruttando il lavoro della massa di poveri, è una delle distopie cinematografiche più frequenti, una visione iperbolica del nostro presente proiettata in un futuro deteriore che ha contaminato tutto il cinema fin daMetropolis. E che proprio ad un regista come Neil Blomkamp sia stato affidato un film con una premessa così consueta è la pecca produttiva più grande del film. Nelle mani dell'autore di District 9 la storia è naturalmente sbilanciata verso il mondo dei poveri, ritratto con ammirabile dettaglio e mania per la creazione di meccanismi vessatori, scenari disperati e incubi operai, prelevati da un immaginario che poco ha a che vedere con la fantascienza ma pesca a piene mani dal cinema più realistico e sociale.
Purtroppo però Elysium nel portare avanti la sua storia di rivoluzione operaia e riconquista della giustizia a dispetto del progresso tecnologico non riesce a trovare il furore del film precedente, nè quell'equilibrio tra finzione e metafora del reale che avrebbe consentito di portare un passo più avanti l'usuale sottotesto sociale del cinema distopico. Solo le astronavi colme di disperati in cerca di salvezza che vengono abbattute senza pietà prima di arrivare su Elysium, riescono ad essere un'immagine dotata della forza e dell'intelligenza che riconosciamo al regista sudafricano.
Semmai è più interessante la visione che Blomkamp ha della Los Angeles del 2154, totalmente bilingue (inglese-spagnolo), quasi uguale a quella contemporanea nelle tecnologie e nella moda (veicoli volanti a parte), colma di rifiuti come in Wall-E e non lontana per certi versi dalla fantascienza anni '60, quella dei robot ubiqui che sembrano pupazzoni inerti da fiera di paese. Andando a girare il suo antifuturo nelle vere baraccopoli del Messico, Elysium svela la vicinanza con l'oggi e come la parte più cara all'autore non sia la lotta per la conquista del benessere che i ricchi tengono per sè (ben rappresentato dalla possibilità di guarire da ogni malattia) o lo scontro fisico con i luogotenenti di Elysium presenti sulla Terra (che appare molto forzato nella sua lunghezza) ma sia invece lo sforzo disperato costituito dal sopravvivere e crescere nei ghetti o nelle periferie del pianeta, evitando come possibile l'ubiqua criminalità e inseguendo la vaga speranza di un domani migliore. L'epica di un futuro in cui tutto è andato male che è visivamente identico all'oggi.

venerdì 30 agosto 2013

Cinema: La regola del silenzio


Un film dal solido impianto narrativo che fa convivere intrattenimento e Storia

Jim Grant è un avvocato vedovo che vive ad Albany (New York) con la figlia. In seguito all'arresto di una componente di un gruppo pacifista radicale attivo negli anni della guerra nel Vietnam rimasta in clandestinità per decenni, un giovane giornalista, Ben Shephard, avvia una serie di indagini. La prima ed eclatante scoperta è legata proprio a Grant. L'avvocato ha un falso nome e ha fatto parte del gruppo. Su di lui pende un'accusa di omicidio nel corso di una rapina in banca. Grant è costretto ad affidare la figlia al fratello e a fuggire. L'FBI e Shepard, separatamente e con motivazioni diverse, si mettono sulle sue tracce.
"I segreti sono una cosa pericolosa, Ben. Pensiamo tutti di volerli conoscere. Ma se ne hai mai avuto uno, allora saprai che significa non solo conoscere qualcosa su un'altra persona, ma anche scoprire qualcosa su noi stessi". Così dice Jim Grant/Robert Redford al giovane giornalista che insegue lo scoop ma crede anche (e ancora) all'onestà altrui. Sono passati 32 anni dall'esordio alla regia di Redford con Gente comune ma la ricerca della verità (che aveva contraddistinto i personaggi portati sullo schermo come attore) ha preso il via allora e non si è ancora fermata.
Redford non si limita a mettere in scena delle persone ma vuole anche 'conoscerle' nel senso più pieno del termine. Adattando un romanzo di Neil e decidendo di interpretare il ruolo principale fa anche di più. Omaggia anche il cinema dell'amico regista Sidney Pollack scomparso nel 2008 e, insieme a lui, il Pakula di Tutti gli uomini del Presidente. Perché in La regola del silenzio - The Company You Keep si ritrovano temi e tensioni di quello che fu il cinema democratico americano di cui Pollack fu uno degli autori di punta e Redford il suo interprete ideale.
La figura del giornalista vede in gioco lo sguardo pulito di Shia Labeouf contrapposto a quello routiniere e disilluso del suo capo Stanley Tucci e attraverso lui Redford ci fa sapere di non aver smesso di credere in un'informazione 'pulita'. Il suo è un Come eravamo visto a distanza e sotto una diversa angolazione. Grant, nel suo confronto con il passato e con le persone che ne avevano fatto parte, ha modo di leggere dentro se stesso scoprendo che rimanere ancorati a ciò che è stato significa rifiutarsi di crescere. Questo però non vuol dire abbandonare degli ideali ma ammettere gli errori commessi collocandoli nella giusta prospettiva.
Redford continua a fare un cinema dal solido impianto narrativo, capace di far coesistere giovani attori con autentici giganti del cinema come Julie Christie o Susan Sarandon. Con la giusta attenzione all'entertainment ma senza mai dimenticare la Storia delle persone e di un'intera nazione.

Bello, tensione sempre sostenuta.