mercoledì 31 dicembre 2014

Cinema: Lo Hobbit - La battaglia delle 5 armate


Nell'ultimo capitolo de Lo Hobbit forte unità narrativa con gli altri film e ritmo sincopato
Gabriele Niola

La battaglia delle cinque armate Smaug ha deciso di scatenarsi dando fuoco a Pontelagolungo e ai suoi abitanti. Mentre i nani, inermi, guardano la scena dalla montagna, in un delirio di fughe disperate solo Bard decide di combattere il drago riuscendo in extremis a penetrare l'unico punto scoperto della sua dura scorza con una sola grande freccia. Sconfitta la creatura si apre uno scenario ancora più truce: la montagna è libera e il tesoro dei nani incustodito, la notizia si sparge in fretta e, vista la bramosia di Thorin nel tenere l'oro per sè, alle porte si prepara un conflitto tra l'esercito degli elfi e degli uomini (desiderosi di vedere rispettata la promessa fattagli dal nano ora "re sotto la montagna"), quello dei nani accorsi a difendere il loro simile e il grande nemico di Thorin, desideroso d'oro e vendetta. In mezzo a tutto ciò Bilbo ha rubato la bramata Arkengemma e deve decidere che farne. Parte con un enjambement narrativo il terzo ed ultimo capitolo di Lo Hobbit, riprendendo per una breve introduzione (finita prima ancora della comparsa del titolo) gli eventi durante i quali Peter Jackson era andato a capo al termine del capitolo precedente, ovvero la furia del drago Smaug. È una delle trovate di adattamento più efficaci del film, gli dona da subito un ritmo sincopato e conferma la forte unità narrativa che questa serie di tre film vuole avere. Tuttavia da quel momento in poi il resto di La battaglia delle cinque armate è molto fedele al suo titolo e preferisce l'estesa e spesso noiosa rappresentazione dei conflitti tra diversi eserciti ai molti altri spunti che la parte terminale del libro originale offriva. Dopo che per 5 film abbiamo visto diversi re all'opera e diversi umani sudare per guadagnare il proprio ritorno a quella carica (Aragorn prima e Bard qui), ora Peter Jackson vuole mettere sotto i riflettori proprio i conflitti di re e condottieri (veri protagonisti della storia), divisi tra chi insegue ossessioni personali e chi pensa al benessere del proprio popolo. Se già in La desolazione di Smaug era possibile notare quanto la leggerezza del romanzo da cui tutto parte venisse appesantita per avvicinare questa trilogia a quell'altra, tratta dal più noto volumone di Tolkien, in questo la trasformazione è quasi completa, così anche i piccoli inserti di umorismo o le facezie più semplici, che dovrebbero segnare la differenza tra i due racconti, sembrano forzate, meccaniche e mal amalgamate con il resto. Nella volontà di creare più di un ponte narrativo con Il signore degli anelli questo film finale di Lo Hobbit introduce personaggi e tematiche, anticipa eventi e prepara alla grandezza degli scontri in un lungo ripetersi di nomi (sia di luoghi che di persone) e luccicar di sguardi. Nel chiudere il viaggio di Bilbo Baggins Peter Jackson sceglie infatti la grande epica, ne allarga il respiro e vi inserisce molte invenzioni (più che in qualsiasi altro film), all'insegna di una serie di conflitti titanici tra eterni nemici e grandi poteri, di storie d'amore molto convenzionali e sentimenti sbandierati. Il risultato purtroppo è che una serie di film che è stata in grado di cambiare nel corso degli anni 2000 molto di quello che si pensava dovessero essere i blockbuster, finisce con le più tipiche dichiarazioni d'amore smielate, domande retoriche e svelamenti banali. Rimane così schiacciato uno dei temi più presenti nell'opera tolkeniana che l'adattamento filmico di Il signore degli anelli rispettava molto, l'idea che le cose più piccole, gli elementi più trascurabili e le persone meno in vista possano essere le più importanti, che la storia la facciano più gli anelli di semplice fattura, cui nessuno dà importanza, o i piccoli uomini di cui tutti si prendono gioco che i grandi condottieri.

Meglio del secondo, anche se sembra di rivedere il Signore degli Anelli, per certi versi.


domenica 28 dicembre 2014

Mostra: La guerra che verrà non è la prima 1914 - 2014

"La guerra che verrà non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti. Fra i vinti la povera gente faceva la fame. Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente."
Bertolt Brecht
La mostra La guerra che verrà non è la prima. Grande guerra 1914-2014 realizzata con il Patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri - Struttura di missione per gli anniversari di interesse nazionale, in collaborazione con importanti istituzioni culturali nazionali, costituisce la colonna portante del grande progetto Mart/Grande guerra 1914-2014 che si sviluppa nelle tre sedi del Museo e si completa con un programma collaterale di eventi, incontri, convegni, appuntamenti.

L
a mostra è un progetto diretto da Cristiana Collu, a cura di Nicoletta Boschiero, Saretto Cincinelli, Gustavo Corni, Gabi Scardi, Camillo Zadra, in collaborazione con esperti di storia e arte contemporanea. Attraverso lo sviluppo di contributi complementari fra loro, l’esposizione si allontana dalla semplice riflessione sulla storia e offre uno sguardo più complesso sull’attualità del conflitto, ancora oggi al centro del dibattito contemporaneo. La Prima guerra mondiale, di cui ricorre il Centenario, tra gli eventi più drammatici e significativi della storia, rappresenta dunque il punto di partenza di un’indagine più ampia che attraversa il XX secolo e arriva ai conflitti dei nostri g iorni. Il Mart si misura con il più difficile, travagliato e scabroso dei temi, facendosi carico non solo del racconto della storia, ma anche dell’esposizione articolata di alcune delle verità che lo contraddistinguono. Questo progetto ha richiesto e richiede non solo oggettività e distanza ma partecipazione e chiarezza. Non basta non volere la guerra e desiderare la pace. Muovendo dalla celebre poesia di Bertolt Brecht, “La guerra che verrà non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti. Fra i vinti la povera gente faceva la fame. Fra i vincitori faceva la fame la povera gente egualmente”, il Museo costruisce una narrazione dalla quale scaturisce un intenso viaggio che affonda le sue radici nelle guerre di un secolo, ritrovandosi nella più tragica storia recente. La mostra sviluppa il tema adottando molteplici punti di vista e toccandone anche gli aspetti più sensibili, delicati e talvolta controversi. Il percorso espositivo lascia emergere l’evento come risultato di una composizione in cui l’arte si confronta con la storia, la politica e l’antropologia. Ricorrendo a una sorta di complesso montaggio tematico e temporale, l’esposizione evita di seguire un preciso filo cronologico, dimostrando – tramite inediti accostamenti e cortocircuiti semantici – come tutte le guerre siano uguali e, allo stesso tempo, come ogni guerra sia diversa. L’intento non è quello di inventariare i conflitti di ieri e di oggi, né quello di misconoscere le irriducibili differenze storiche, ma la volontà di mantenere aperta la ricerca e la riflessione in un luogo in cui ricordare non significhi ridurre un evento a qualcosa di pietrificato, archiviato e definitivamente sigillato in se stesso ma, all’opposto, riveli interpretazioni e riletture capaci di esprimerne tutta la complessità.
L’arte entra in contatto con la quotidianità, i capolavori delle avanguardie dialogano con la propaganda, la grammatica espositiva completa e rinnova il valore di documenti, reportage, testimonianze. Installazioni, disegni, incisioni, fotografie, dipinti, manifesti, cartoline, corrispondenze, diari condividono gli oltre tremila metri quadrati del piano superiore del Mart e si misurano con sperimentazioni artistiche più recenti, installazioni sonore, narrazioni cinematografiche: documentari originali, video e film. Esposti anche numerosi reperti bellici impiegati nella Prima guerra mondiale, il cui ritrovamento è il capitolo più recente di una vicenda ancora attuale, nella quale ogni oggetto racconta la propria storia. Il progetto allestitivo, realizzato dal designer catalano Martí Guixé, traduce le due anime della mostra, storica e contemporanea, costruendo un palinsesto che tiene insieme follia, disordine ritmo, luce e speranza. Alle espressioni della contemporaneità è affidato il compito di amalgamare e scandire il percorso e i tempi della visita. Ne scaturisce una visione trasversale che tiene conto dei punti di vista della storia, dell’arte e del pensiero contemporaneo che contestualizza il passato. Un racconto sulla guerra e della guerra. L’allestimento è realizzato senza soluzione di continuità, affinché il visitatore scelga autonomamente da quale ingresso cominciare il proprio percorso e come costruirlo, affrontando la mostra e il suo tema in totale libertà. Ciò risulta indispensabile in un’esposizione tanto complessa, che emoziona, turba, disturba ma allo stesso tempo concilia e mette l’essere umano in contatto con una delle sue componenti più viscerali e oscure. La guerra che verrà non è la prima è una mostra vertiginosa nella quale si sviluppano sottotesti tematici, focus narrativi e affondi mirati, una trama di linguaggi tra i quali spicca a più riprese, filo rosso tra i fili che la mostra intreccia, il Futurismo. L’esposizione presenta alcuni capolavori storici provenienti dalle collezioni del Mart fra i quali opere di Giacomo Balla, Anselmo Bucci, Fortunato Depero e Gino Severini. Una lunga serie di prestigiosi prestiti nazionali e internazionali provenienti da collezioni pubbliche e private e gallerie completa il progetto. Numerose, inoltre, le opere di artisti che hanno vissuto il dramma della Grande guerra, la lista comprende, oltre ai già citati maestri dell’avanguardia italiana, Max Beckmann, Marc Chagall, Albin Egger-Lienz, Adolf Helmberger, Osvaldo Licini, Arturo Martini, Pietro Morando, Mario Sironi ed è integrata dai lavori di registi dell’epoca come Filippo Butera, Segundo de Chomón, Abel Gance. la guerra che verrà non è la prima Tra gli artisti impegnati direttamente nel conflitto, un approfondimento è dedicato al fotografo cecoslovacco Josef Sudek. La guerra è raccontata non solo come esperienza vissuta in prima persona, ma anche come pensiero ricorrente nella ricerca di molti artisti tra cui Lida Abdul, Enrico Baj, Yael Bartana, Alberto Bregani, Alberto Burri, Alighiero Boetti, Pascal Convert, Gohar Dashti, Berlinde De Bruyckere, Paola De Pietri, Harun Farocki, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Alfredo Jaar, William Kentridge, Mateo Maté, Adi Nes, ORLAN, Sophie Ristelhueber, Thomas Ruff, Anri Sala, Artur Zmijewski. Vengono inoltre presentate le migliori produzioni di alcuni artisti inediti al pubblico italiano come la serie completa delle 15 xilografie di Sandow Birk che misurano oltre due metri e mezzo l’una. Birk narra la guerra in Iraq rifacendosi alle 18 xilografie del ciclo Les Grandes Misères de la guerre di Jacques Callot (1633) alle quali si ispirò anche Francisco Goya per la realizzazione dei famosi Desastres de la guerra (1810-1815) sulla Guerra d’indipendenza spagnola. La celebre installazione In Flanders Fields di Berlinde De Bruyckere viene presentata per la prima volta accanto alle fotografie storiche che l’hanno ispirata, provenienti dell’archivio fotografico del In Flanders Fields Museum di Ypres (Belgio), nel quale l’artista ha trascorso un periodo di residenza. Saranno inoltre esposti l’intera serie House beautiful: bringing the war home di Martha Rosler, una tra le più note riflessioni sul rapporto fra guerra e media; Atlantic Wall di Magdalena Jetelová, installazione fotografica sui bunker della Seconda guerra mondiale, ispirata ai testi del filosofo francese Paul Virilio e l’installazione Picnic o il buon soldato di Fabio Mauri con la quale l’artista aveva creato una sorta di natura morta utilizzando reperti originali e di uso comune del periodo bellico. Paolo Ventura, artista in residenza al Mart già ospite della Casa d’Arte Futurista Depero nel 2013, ha realizzato un progetto context specific dal titolo Un reggimento che va sottoterra. Infine, è straordinariamente esposto, per la prima volta dopo il recente restauro, Guerra-festa di Fortunato Depero, proveniente dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. In occasione della mostra al Mart sono stati restaurati preziosi documenti d’archivio, opere, manifesti e reperti della Prima guerra mondiale provenienti dal Museo dell’aeronautica Gianni Caproni di Trento, dal Museo Civico del Risorgimento di Bologna, dalla Soprintendenza per i beni architettonici e archeologici della Provincia Autonoma di Trento e dalla Soprintendenza per i beni storici, artistici e etnoantropologici per le province di Venezia, Belluno, Padova e Treviso – Collezione Salce. Il volume che accompagna il progetto interpreta il racconto espositivo attraverso i preziosi contributi di Massimo Recalcati, Rocco Ronchi, Marina Valcarenghi, Jean-Luc Nancy, Marcello Fois, Gustavo Corni, Diego Leoni, Fabrizio Rasera, Camillo Zadra, Saretto Cincinelli, Gabi Scardi, Marco Mondini, Paolo Pombeni, Franco Nicolis e gli approfondimenti di Serena Aldi, Nicoletta Boschiero, Veronica Caciolli, Selena Daly, Duccio Dogheria, Daniela Ferrari, Francesca Franco, Luca Gabrielli, Denis Isaia, Mariarosa Mariech, Marta Mazza, Luciana Senna, Alessandra Tiddia, Federico Zanoner.
La guerra che verrà non è la prima. Grande guerra 1914-2014 è un progetto del Mart in collaborazione con Ufficio Beni archeologici della Soprintendenza per i beni culturali della Provincia autonoma di Trento; Museo Storico Italiano della Guerra, Rovereto; Laboratorio di storia, Rovereto; Soprintendenza per i beni storici, artistici ed etnoantropologici per le province di Venezia, Belluno, Padova e Treviso; Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Trento; Servizio Emigrazione e Solidarietà internazionale della Provincia autonoma di Trento.


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sabato 27 dicembre 2014

Cinema: il ragazzo invisibile


Una scommessa coraggiosa e infinitamente più complessa di quanto la sua superficie children friendly lasci intuire
Paola Casella      *  *  *  1/2  -

Michele è un adolescente e vive a Trieste con la mamma Giovanna, poliziotta single ("Non zitella!") da quando il marito, anche lui poliziotto, è venuto a mancare. A scuola i bulletti della classe, Ivan e Brando, lo tiranneggiano e la ragazza di cui è innamorato, Stella, sembra non accorgersi di lui. Ma un giorno Michele scopre di avere un potere, anzi, un superpotere: quello di diventare invisibile. Sarà solo la prima di una serie di scoperte strabilianti che cambieranno la vita a lui e a tutti quelli che lo circondano.
Gabriele Salvatores compie un altro salto nel vuoto cimentandosi con un film di genere nel genere: una storia di supereroi all'interno di un film per ragazzi, filone supremamente (e inspiegabilmente) trascurato in Italia. Quello di Michele è un classico viaggio di formazione che pone al pubblico, snocciolandole una dopo l'altra all'interno di una narrazione fluida e coesa, le grandi domande di chi si affaccia all'età adulta (e che continuano a riguardare anche il mondo dei "grandi"). Chi siamo? Di chi possiamo fidarci? A chi dobbiamo dare ascolto? Di chi (o che cosa) siamo figli? La nostra famiglia di elezione coincide con quella biologica? Quali sono i nostri veri talenti e come possiamo usarli in modo consapevole?
Salvatores sceglie, con molta onestà artistica, di ricordarci che il suo film deve rimanere accessibile in primis ai giovanissimi, e dunque non disdegna spiegazioni didascaliche e sottolineature esplicite, rifiutando lo snobismo dell'autore adulto che strizza l'occhio ai suoi coetanei. Il ragazzo invisibile resta però fortemente autoriale nelle scelte estetiche e narrative, che rispettano la composizione grafica del fumetto e l'iperrealismo (magico) del racconto fantastico.
La scelta del potere dell'invisibilità è ricca di valenze metaforiche, soprattutto per il cinema che è per definizione racconto del visibile, e visto che l'adolescenza è in genere il periodo di minima autostima e massimo narcisismo, essere invisibili diventa contemporaneamente un'aspirazione e uno spauracchio. Salvatores sceglie di filmare l'assenza nel momento stesso in cui rivendica il suo (anti)eroe come presenza innanzitutto fisica, e non sottrae il suo protagonista all'ambiguità di questo rapporto di attrazione e repulsione verso il proprio "non essere".
Gli effetti speciali de Il ragazzo invisibile sono artigianali nel senso migliore del termine: niente di fantasmagorico o strabiliante, piuttosto un recupero della meraviglia e dell'incanto infantile, sempre profondamente radicati nella concretezza di una quotidianità riconoscibile. Anche il montaggio si tiene lontano dalla frenesia da action movie hollywoodiano, ancor più se legato all'immaginario fumettistico.
Il ragazzo invisibile lavora soprattutto sulla costruzione dei personaggi e sulla semina dei grandi quesiti esistenziali di cui sopra, sempre enunciati a misura di adolescente. La sceneggiatura, del trio Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi e Stefano Sardo, attinge a molti capisaldi del cinema di genere senza diventare imitativa, e le innumerevoli citazioni, spesso d'autore - da Gremlins a Ferro 3, da Lasciami entrare ad Hanna (complice anche la somiglianza di Noa Zatta, la giovane attrice che interpreta Stella, con Saoirse Ronan), da Salt a Il sesto senso, da Spider Man a X-Men, da L'alieno a Grosso guaio a Chinatown. Anche l'intervento produttivo è competente, con un product placement discreto e un giusto equilibrio fra attenzione alle esigenze commerciali e rispetto della vocazione autoriale di Salvatores.
Il ragazzo invisibile racconta un corpo adolescente in cambiamento come cartina di tornasole e motore dell'evoluzione di un'intera comunità, creando un sottile distinguo fra talento e potere, appoggiandosi ad un'architettura narrativa solida e ad un'estetica precisa, apparentemente semplice e invece assai sofisticata nella cura dei dettagli, nel posizionamento delle luci, nella costruzione delle inquadrature e nella scelta "fumettistica" dei punti di ripresa. Una scommessa vinta per una sfida coraggiosa e infinitamente più complessa di quanto la sua superficie children friendly lasci intuire.

Bello, sui temi dell'adolescenza. un film riuscito


Mostra: Light Time Tales

Joan Jonas
Light Time Tales / A cura di Andrea Lissoni

La mostra
Light Time Tales a cura di Andrea Lissoni è la prima grande mostra personale di Joan Jonas (New York, 1936) ospitata presso un’istituzione italiana, che riunisce, tra opere storiche e più recenti, dieci installazioni e dieci video monocanale, tra cui un nuovo video concepito appositamente per HangarBicocca. Tra le opere in mostra Reanimation, simbolo dell’evoluzione delle sperimentazioni di Joan Jonas, è punto di partenza dell’omonima performance in collaborazione con il musicista e compositore jazz Jason Moran che è stata presentata il 21 ottobre 2014. Joan Jonas è una delle più rispettate e riconosciute artiste viventi. Considerata la massima autorità in campo di storia e teoria della performance, si è affermata negli anni 60 e 70 grazie alla sua pionieristica pratica performativa e video. Il suo lavoro ha reinterpretato in modo assolutamente originale la relazione tra l’arte e le forme della narrazione, includendo nelle sue opere, accanto all’immagine video, alla scultura e alla performance, la presenza della parola come motore di immaginario.

Joan Jonas rappresenterà gli Stati Uniti alla 56° edizione della Biennale di Venezia, in apertura a maggio 2015, con una mostra presentata dal MIT List of Visual Arts Center. Attualmente è Professor Emerita presso il Massachusetts Institute of Technology (MIT) Program in Art, Culture and Technology di Boston, ed è autrice di testi di riferimento sul tema delle performing arts.Ha partecipato alle più importanti mostre collettive degli ultimi trent’anni, fra cui la Biennale di Venezia nel 2009 e varie edizioni di documenta di Kassel (1972, 1977, 1982, 1987, 2002, 2012).

Mostra francamente incomprensibile anche se la sensazione generale non è cosi negativa. Forse la presenza di Filo ha alterato il feeling

venerdì 26 dicembre 2014

Milonga: Che Bailarin

Molto casino ed un atmosfera diversa dal solito. io un po stanco ho ballato comunque abbastanza ma non benissimo

Cinema: Viviane



Ricostruzione esemplare di un'anomalia del diritto di famiglia israeliano, ritratto femminile di rara forza
Raffaella Giancristofaro      *  *  *  1/2  -

Nel tribunale religioso di una località israeliana non specificata si esamina la richiesta di divorzio di Viviane Amsalem, che da tre anni ha lasciato il domicilio coniugale per incompatibilità col marito Elisha e risiede nel frattempo presso parenti. Per la legge israeliana, Viviane è un'emarginata sociale in libertà vigilata: non può avere nuove relazioni né una nuova famiglia. Non presentandosi alle udienze, Elisha allunga di proposito i tempi ed esaspera Viviane, il suo avvocato, i rabbini. Il dovere delle autorità religiose è preservare la "pace domestica", riconciliare le parti in causa e ascoltare le testimonianze degli amici veri e presunti della coppia. La vicenda si trascina tra rinvii continui, per cinque anni, concludendosi dopo un estenuante testa a testa tra marito e moglie, in un progressivo smascheramento di prevaricazioni e formalismi che non coinvolge tutti i presenti in aula.
Terzo capitolo di una trilogia iniziata con To Take a Wife (2004) e proseguita con Seven Days (2008), Viviane parte dallo stesso assunto di Una separazione dell'iraniano Asghar Farhadi ma si afferma come dramma legale puro. I toni oscillano per lo più tra tragico e paradossale, ma c'è spazio anche per una strepitosa parentesi comica femminile. Ricostruzione esemplare di un'anomalia del diritto di famiglia israeliano, che ancora oggi discrimina la donna rispetto all'uomo, per dirla con i suoi autori, Viviane è anche «una metafora della condizione delle donne in generale che si considerano "imprigionate dalla legge"».
Non da ultimo è ritratto femminile di rara forza, con una protagonista (Ronit Elkabetz, qui anche sceneggiatrice e regista con il fratello Shlomi) che riaggiorna il mito di Antigone opponendo una ferma, pazientissima resistenza a una norma inattuale. La scelta registica caratterizzante è la soggettività dello sguardo: tranne il finale (non a caso), il punto di vista è quasi sempre quello dell'interlocutore di chi è inquadrato. Costruito com'è per lo più di primi piani e frequenti sguardi in macchina, Viviane persegue con coerenza l'obiettivo di essere soprattutto interpellazione. Con numerosi cartelli insiste sul frazionamento del tempo, per sottolineare l'inestimabile valore di un'esistenza libera, qui ripetutamente offesa da un'autorità cieca.
Nonostante la fissità data dall'unità di luogo, il pretesto e il contesto che opprimono la protagonista e il linguaggio strutturalmente iterativo e formale del rito, il film stupisce per finezza di scrittura, molteplicità di registri e immediatezza, grazie al lavoro dei registi sul primo piano, in omaggio al cinema delle origini. Alla Quinzaine di Cannes 2014.

Non il mio genere di film, troppo legal e teatrale

domenica 21 dicembre 2014

Sci: Sestriere


Con Matte e Filo.
Bella neve, pochissima gente, belle piste.
2h da Milano

venerdì 19 dicembre 2014

Balletto: Serata Ciaikovskij


Per il classico appuntamento natalizio, Frédéric Olivieri, direttore della Scuola di Ballo dell'Accademia Teatro alla Scala, ha scelto di rendere omaggio ad uno dei maggiori compositori dell'Ottocento, Pëtr Il'ič Čajkovskij.
Si inizia con il magnifico Adagio della Rosa, estratto da La bella addormentata di Marius Petipa per poi immergersi nelle atmosfere di Serenade, il primo balletto coreografato da George Balanchine al suo arrivo negli Stati Uniti. Si prosegue con un estratto da La bella addormentata di Mats Ek, intensa versione contemporanea del celebre balletto ambientata nel mondo della droga. Non può mancare per celebrare il Natale un estratto da Lo schiaccianoci, nella versione che Frédéric Olivieri ha creato per i suoi giovani allievi.

con gli allievi della Scuola di Ballo Accademia Teatro alla Scala
diretta da Frédéric Olivieri

Classico, Classico, ma cosi godibile, cosie leggero. Bellissimo. e bravi loro

giovedì 18 dicembre 2014

Mostra: Chagall e la Bibbia



La mostra offre la possibilità di ammirare 60 lavori che l’artista dedica al messaggio biblico. La forza creativa di Chagall ha un carattere esplosivo e si manifesta nella disseminazione di frammenti narrativi e simbolici che, nel loro insieme,  acquistano valore iconico. Egli fu affascinato sin dagli anni giovanili dalla Bibbia, da lui considerata come la più importante e affascinante fonte di poesia e di arte e si confrontò con questi temi per tutta la vita, sino alla realizzazione del ciclo sul Messaggio Biblico, negli anni Sessanta. I soggetti furono elaborati in varie occasioni, con tecniche diverse (acqueforti, oli, ceramiche, sculture....), di cui la mostra dà ragione. Fulcro dell’esposizione sono le 22 guaches preparatorie, inedite sino ad ora, che si caratterizzano per una freschezza e una immediatezza di segno e per un grande fascino E’ sorprendente come sia possibile cogliere nelle  guaches, soprattutto nell’intuizione dello spazio, la predilezione per scelte unidimensionali dell’artista che non impediscono, pur in assenza di intenzioni prospettiche, il raggiungimento di esiti quasi realistici in forza di una rappresentazione immaginifica e fortemente evocativa. Il Museo Diocesano propone tutto ciò all’interno di un allestimento straordinario, costituito da una grande arca che, realizzata dallo studio Morpurgo de Curtis ArchitettiAssociati, ripropone il tema biblico desunto dal libro dell’Esodo.

MUSEO DIOCESANO
MILANO

Corso di Porta Ticinese, 95
20123, Milano

Mostra piccina e molto tematica, in cui la passione di Chagall è "costretta" entro un tema. Interessante

venerdì 12 dicembre 2014

Cinema: il sale della terra


Un'esperienza estetica esemplare e potente, un'opera sullo splendore del mondo e sull'irragionevolezza umana che rischia di spegnerlo
Marzia Gandolfi      *  *  *  1/2  -

Magnificamente ispirato dalla potenza lirica della fotografia di Sebastião Salgado, Il sale della terra è un documentario monumentale, che traccia l'itinerario artistico e umano del fotografo brasiliano. Co-diretto da Wim Wenders e Juliano Ribeiro Salgado, figlio dell'artista, Il sale della terra è un'esperienza estetica esemplare e potente, un'opera sullo splendore del mondo e sull'irragionevolezza umana che rischia di spegnerlo. Alternando la storia personale di Salgado con le riflessioni sul suo mestiere di fotografo, il documentario ha un respiro malickiano, intimo e cosmico insieme, è un oggetto fuori formato, una preghiera che dialoga con la carne, la natura e Dio.
Quella di Salgado è un'epopea fotografica degna del Fitzcarraldo herzoghiano, pronto a muovere le montagne col suo sogno 'lirico'. Viaggiatore irriducibile, Sebastião Salgado ha esplorato ventisei paesi e concentrato il mondo in immagini bianche e nere di una semplicità sublime e una sobrietà brutale. Interrogato dallo sguardo fuori campo di Wenders e accompagnato sul campo dal figlio, l'artista si racconta attraverso i reportages che hanno omaggiato la bellezza del pianeta e gli orrori che hanno oltraggiato quella dell'uomo. Fotografo umanista della miseria e della tribolazione umana, Salgado ha raccontato l'avidità di milioni di ricercatori d'oro brasiliani sprofondati nella più grande miniera a cielo aperto del mondo, ha denunciato i genocidi africani, ha immortalato i pozzi di petrolio incendiati in Medio Oriente, ha testimoniato i mestieri e il mondo industriale dismesso, ha perso la fede per gli uomini davanti ai cadaveri accatastati in Rwanda e 'ricomposti' nella perfezione formale e compositiva del suo lavoro. Un lavoro scritto con la luce e da ammirare in silenzio.
Nato nel 1944 ad Aimorés, nello stato di Minas Gerais, da cui parte ancora adolescente, spetta al figlio Juliano documentarne la persona attraverso foto e home movies, ricordi e compendi affettivi di incontri col padre, sempre altrove a dare vita (e luce) al suo sogno. Un sogno che per potersi incarnare deve confrontarsi appieno col reale. A Wenders concerne invece la riproduzione dei suoi scatti, che ritrovano energia e fiducia nella natura, le sue foreste vergini, le terre fredde, le altezze perenni. Il regista tedesco, straordinario 'ritrattista' di chi ammira (Tokyo-Ga, Buena Vista Social Club, Pina Bausch), converte in cinema le immagini fisse, scorre le visioni e la visione di un uomo dentro un mondo instabile. In una scala di grigi e afflizioni, nei chiaroscuri che impressionano il boccone crudo dell'esistere (l'esodo, la sofferenza e il calvario dei paesi sconvolti dalle guerre e dalle nuove schiavitù), Salgado racconta le storie della parte più nascosta del mondo e della società. Spogliate dalla distrazione del colore, le sue fotografie attestano la conoscenza precisa dei luoghi e la relazione di prossimità che l'artista intrattiene con gli altri, sono un mezzo, prima che un oggetto d'arte, per informare, provocare, emozionare. Foto che arrivano dentro alle cose perché nascono dall'osservazione, dalla testimonianza umana, da un fenomeno naturale.
Esperiti esteticamente l'oggetto artistico e l'intentio artistica di Salgado, Wenders rappresenta col suo cinema la 'forma' dell'idea di cui gli scatti sono portatori. Scatti radicali e icastici che penetrano le foreste tropicali dell'Amazzonia, del Congo, dell'Indonesia e della Nuova Guinea, attraversano i ghiacciai dell'Antartide e i deserti dell'Africa, scalano le montagne dell'America, del Cile e della Siberia. Un viaggio epico quello di Salgado che testimonia l'uomo e la natura, che non smette di percorrere il mondo e ci permette di approcciare fotograficamente le questioni del territorio, la maniera dell'uomo di creare o distruggere, le storie di sopraffazione scritte dall'economia, l'effetto delle nostre azioni sulla natura, intesa sempre come bene comune. Perché dopotutto la domanda che pone la fotografia di Salgado è sempre 'dove'? In quale luogo? E determinare il luogo è comprendere il senso della narrazione dell'altro.

un documentario. con le foto di Salgado e la sua storia, certo. Ma senza un vero pathos..

lunedì 8 dicembre 2014

Milonga: Biko con concerto Tango Sonos

Gran casino dovuto al concerto e tante facce nuove, quindi maggiori rischi..
Inizio male con un paio di tande ballate male, direi per consorso di colpa con le ballerine.
Meglio nel finale con la ragazza alta rossa allieva di Marina e con Marisa, anche se non al meglio

Divertito comunque

Mostra: Conrad ed il mare


La mostra è abbastanza una bufala, in quanto mostra 4 pezzi marinareschi e qualche quadro a supporto di un po di citazioni "marinaresche".
Si vede in poco tempo ma lascia poco, se non la voglia di leggere Conrad.

sabato 6 dicembre 2014

Cinema: Interstellar

Uno dei film più ambiziosi degli ultimi anni in cui una vivacità narrativa e un'originalità registica fortissime costringono lo spettatore al piacere della concentrazione


Un piaga sta uccidendo i raccolti della Terra, da diversi decenni l'umanità è in crisi da cibo e quasi tutti sono diventati agricoltori per supplire a queste esigenze. La scienza è ormai dimenticata e anche ai bambini viene insegnato che l'uomo non è mai andato sulla Luna, si trattava solo di propaganda. L'ex astronauta Cooper, mai andato nello spazio e costretto a diventare agricoltore, scopre grazie all'intuito della figlia che la NASA è ancora attiva in gran segreto, che il pianeta Terra non si salverà, che è comparso un warmhole vicino Saturno in grado di condurli in altre galassie e che qualcuno deve andare lì a cercare l'esito di tre diverse missioni partite anni fa. Forse una di quelle tre ha scoperto un pianeta buono per trasferire la razza umana e in quel caso è già pronto un piano di evacuazione. Andare e tornare è l'unica maniera che Cooper ha di dare un futuro ai propri figli.
Questa volta c'è 2001: Odissea nello spazio nel mirino di Christopher Nolan. Interstellar non fa mistero di volersi misurare in quel campo da gioco e lo dice più volte con le immagini in quelle che sarebbe riduttivo chiamare citazioni ma sembrano più dichiarazioni d'intenti, come se il film di Kubrick fosse un genere a sè e Interstellar ne stesse solo rispettando le regole. La differenza tra i due sta però nel fatto che il regista di Inception e Memento è il massimo esempio di cineasta-ingegnere, un abile costruttore di ingranaggi dalla complessità impressionante che con invidiabile chiarezza corrono verso una risposta finale. Le domande poste dai suoi film non rimangono quasi mai appese (la trottola di Inception è una delle poche eccezioni in un film che comunque è pieno di risposte) e anche Interstellar, arrivato là dove Kubrick si fermava, avanza per fornire delle risposte che inevitabilmente risultano più povere di un indeterminato mistero. Per Nolan i misteri non sono nella fine del viaggio ma nelle situazioni che l'hanno messo in moto, sono da rintracciarsi nei molti errori e nelle molte menzogne dei personaggi (quasi tutti sbagliano qualcosa, quasi tutti ad un certo punto mentono a se stessi o agli altri) e nelle intuizioni sentimentali che hanno, tutto comunque parte di un puzzle perfetto.
Quel che ogni volta questo autore ci fa riscoprire è il piacere dell'audacia. Non c'è nessuno oggi capace di osare così tanto, nessuno così determinato a non voler essere come gli altri. Il futuro messo in scena da Interstellar non somiglia a nessuno dei molti già visti, è uno in cui una società di diverse decine di anni avanti a noi vive in un passato recentissimo (sembra la fine degli anni '90), apparentemente idilliaco ma intimamente disperato. L'uomo ha smesso di osare e, essendo a rischio estinzione, ha cominciato a conservare ma in questo ritorno alla vita bucolica, tutta cieli blu e campi coltivati, è collegato un profondo senso di sconfitta, tanto quanto uno di esaltazione è invece legato alle potenzialità della scienza e della tecnologia (mai nemica ma quasi più amica ed empatica dei propri simili), un assunto che già da solo ribalta i luoghi comuni del cinema per ambire ad un senso di meraviglia ed avventura che non siano figli solo dell'eroismo individuale del cinema americano (che comunque non manca) ma della semplicità spielberghiana, quella capacità invidiabile di suscitare i sentimenti più basilari quali meraviglia, desiderio e stupore.
In maniera non diversa è audace la tecnica con cui il regista, già da Inception, mostra di avere un'idea propria dell'uso narrativo del montaggio parallelo, lavorando sulla suspense tra due linee di trama nello stesso momento (quella dell'astronauta Cooper e della figlia Murph o in certi casi quelle degli eventi che stanno accadendo contemporaneamente ai diversi astronauti) o come intenda il tempo. In quasi ogni suo film Nolan ha dimostrato che il cinema può raccontare storie intrecciandone la trama a partire dalla sovrapposizione di temporalità diverse, trovando così percorsi nuovi anche per parabole canoniche. In Interstellar il tempo degli astronauti non è quello sulla Terra, i loro eventi si svolgono in momenti differenti ma lo stesso comunicano di continuo e in maniere sempre nuove, rinfrescando espedienti di suspense ormai usurati. È parte del fascino da puzzle dei film di Nolan ma più in grande è anche la dimostrazione di una vivacità narrativa e un'originalità registica fortissime che impongono un passo diverso ai suoi film e costringono lo spettatore al piacere della concentrazione. I tempi del film seguono un ritmo tutto proprio, con uno stacco vengono saltati diversi mesi, piazzando ellissi là dove altri avrebbero indugiato (gli astronauti non si preparano? Cosa succede tra l'accettazione della missione e la partenza?) e in altri casi vengono allungati a dismisura momenti su cui altri avrebbero sorvolato.

Che tutto questo accada in un kolossal hollywoodiano è forse la sorpresa più grande che il pavido cinema di questi anni, contento solo delle proprie sicurezze, poteva regalarci.

interessante l'articolo di Wired sul film

Film particolare, una fantascienza che contiene tanti film, da un regista che mi piace molto.
Tre ore passano in fretta

venerdì 5 dicembre 2014

fotografia: Walter Bonatti, fotografie dai grandi spazi


Nel volume edito da Contrasto e GAmm Giunti, come in mostra, le immagini di Walter Bonatti compongono un lungo, unico diario di viaggio dove, in una sequenza non cronologica ma certo non casuale, si intrecciano visioni e ricordi legate alla figura del grande esploratore e alpinista. Le fotografie sono accompagnate da brevi note dello stesso autore, parole tratte dai suoi molti testi: da quelli apparsi sulla rivista Epoca negli anni dal 1965 al 1978, alle memorie dei suoi libri, ai resoconti delle conferenze tenute negli ultimi anni. Si tratta di notazioni con cui Bonatti illustrava il senso e il valore di ogni immagine e, insieme, il senso e il valore unico di ognuna delle sue tante avventure. -

Mostra bellissima, con stupende foto scattate in luoghi grandiosi.. uno spettacolo





sabato 29 novembre 2014

Milonga in corte: Agrigelateria


Bella serata in un posto particolare, una cascina adibita a milonga. Bel pavimento, bella musica. Ballato tanto, il 50% con compagne di corso, il 50% con "autoctone", in massima parte piuttosto brave.

Tornato a casa alle 4:38..




venerdì 28 novembre 2014

martedì 25 novembre 2014

Cinema: Torneranno i prati

Film particolare, intimo. Forse non si è piu molto abituati ad un film cosi. Con un suo valore..

venerdì 21 novembre 2014

Teatro: Le voci di dentro


Le voci di dentro
di Eduardo De Filippo
regia Toni Servillo
aiuto regia Costanza Boccardi
scene Lino Fiorito
costumi Ortensia De Francesco
luci Cesare Accetta
suono Daghi Rondanini
con Betti Pedrazzi, Chiara Baffi, Marcello Romolo, Lucia Mandarini, Gigio Morra, Peppe Servillo, Toni Servillo, Antonello Cossia, Vincenzo Nemolato, Marianna Robustelli, Daghi Rondanini, Rocco Giordano, Maria Angela Robustelli, Francesco Paglino
produzione Piccolo Teatro di Milano-Teatro d'Europa, Teatri Uniti di Napoli, Teatro di Roma

Spettacolo molto divertente, con i due Servillo impagabili


giovedì 20 novembre 2014

Marc Chagall - Una retrospettiva

Prima di ieri sera Chagall non mi piaceva molto. Avevo visto delle riproduzioni, forse 1 o 2 quadri.
Ma ieri sera mi è esploso dentro, con un emozione che saliva sala per sala, con i massimi nella rappresentazione delle favole di La Fontaine e nei lavori per l'Uccello di fuoco di Stravinsky.

La piu bella mostra da molto tempo. Da Klimt a Vienna direi. Emozionante


lunedì 17 novembre 2014

Milonga: Macao

Trascinato un po controvoglia.
Il posto è freddissimo, si balla tutti con il maglione se non con il cappotto.
Ma la pista è grande e si riesce a ballare senza pestarsi i piedi.
Si invitano essenzialmente vecchie conoscenze, con esiti alterni. Uniche tande soddifacenti con Francesca.

lunedì 10 novembre 2014

Milonga: Biko

Serata non fortunatissima dal punto di vista del ballo, scelte non sempre azzeccate.
Iniziato bene, con una ragazza che non conoscevo, proseguito meglio con Vania, che è sempre un bel ballare, per poi andare calando in qualità ed affiatamento.


giovedì 16 ottobre 2014

Mostra: Alberto Giacometti

Soli nel GAM, come gia altri giovedi sera dedicati alle mostre

Alberto Giacometti, uno dei più significativi scultori del Novecento, in mostra dall’8 ottobre 2014 al 1 febbraio 2015 alla GAM – Galleria d’Arte Moderna di Milano con capolavori assoluti quali Boule suspendue, Femme qui marche, La cage, Quatre femmes sur socle, Buste d’Annette o ancora la monumentale Grande femme.

lamostrae

A cura di Catherine Grenier, direttore e capo curatore della Fondazione ‘Alberto e Annette Giacometti’ di Parigi, da cui arrivano le oltre 60 opere in mostra, l’esposizione è promossa dal Comune di Milano-Cultura, organizzata e prodotta dalla Galleria d’Arte Moderna di Milano e da 24 ORE Cultura – Gruppo 24 ORE ed è la prima di 4 grandi mostre dedicate alla scultura che saranno ospitate dalla GAM di Milano, recentemente riallestita.
Il visitatore potrà seguire, attraverso le sculture, i dipinti e i disegni realizzati tra gli anni Venti e Sessanta, l’evoluzione artistica di Giacometti, dai suoi inizi in Svizzera alla maturità, trascorsa perlopiù nell’atelier di rue Hippolyte-Maindron a Parigi: un percorso cronologico che si articola in cinque sezioni, costituite a loro volta da diversi gruppi tematici, e che permette di ripercorrere la carriera dell’artista: dall’esordio a contatto con il Post-cubismo e il Surrealismo, all’età più avanzata, durante la quale il filo conduttore diventa la perpetua ricerca di qualcosa che gli sfugge.
A corredo e integrazione del percorso una selezione di disegni e schizzi, immagini d’archivio, foto intime e d’autore, che aiuteranno il visitatore a meglio contestualizzare il procedimento artistico di Giacometti, dal periodo Surrealista agli ultimi anni.

La mostra fa parte di “Milano Cuore d’Europa”, il palinsesto culturale multidisciplinare dedicato all’identità europea della nostra città anche attraverso le figure e i movimenti che, con la propria storia e la propria produzione artistica, hanno contribuito a costruirne la cittadinanza europea e la dimensione culturale.




venerdì 10 ottobre 2014

Beatles Submarine


Beatles Submarine è la beatlemania in palcoscenico, rivisitata dal talento stralunato di Neri Marcorè, cantante e filosofo “assurdista” e dei quattro professori della famigerata Banda Osiris.
Uno spettacolo concerto alla gioiosa, fantastica esplorazione dell’universo della più leggendaria band di sempre.
Un “Magical mystery tour” che raccoglie suggestioni, musiche, frammenti biografici, canzoni e racconti dei favolosi Beatles, una fantasmagoria visionaria e coloratissima, a dimostrazione che il fenomeno Beatles (a 50 anni dalla sua incredibile esplosione) non è stato una moda, ma una vera e propria cultura, fatta di rabbie dolci e speranze di fantasia al potere,

testo e regia Giorgio Gallione
con Neri Marcorè
e la Banda Osiris (Carlo Macrì, Gianluigi Carlone, Roberto Carlone, Sandro Berti)
immagini Daniela Dal Cin
video Francesco Frongia
costumi Guido Fiorato
luci Aldo Mantovani
produzione Teatro dell'Archivolto

Spettacolo veramente divertente e ben fatto, con arrangiamenti nuovi ed inaspettati delle canzoni dei Beatles.


giovedì 2 ottobre 2014

Cinema: Jimi - All is by my side



John Ridley si confronta con uno dei miti immortali del pantheon rock, affidandone il ruolo alla sorprendente interpretazione di André Benjamin

Vita e opere di Jimi Hendrix, dall'anonimato come turnista per Curtis Knight all'affermazione in terra britannica con la Jimi Hendrix Experience, tra donne che lo guidano, come Linda Keith, o che provano a amarlo, come Kathy XXX. Fino al festival di Monterey, che lo consegnerà definitivamente alla storia.
Il difficile equilibrio che è croce e delizia di ogni biopic - rispetto verso l'oggetto della narrazione e gratificazione dei fan da un lato, riuscita del film come opera d'arte autonoma dall'altro - porta a rari casi realmente soddisfacenti in ambito rock (tra le poche eccezioni Control di Anton Corbijn). John Ridley, già sceneggiatore di 12 anni schiavo, gioca una carta oltremodo ambiziosa, confrontandosi con uno dei miti immortali del pantheon rock. Accantonando possibili e perniciose derive legate alla morte di Hendrix, tra tesi fantasiose e moralismi fuori luogo, Ridley opta per il periodo musicalmente più creativo ed esplosivo del nostro, quello della gioventù trascorsa da star in ascesa nella swingin' London. Su Jimi: All is by My Side pesa come un macigno, prevedibilmente, l'impossibilità di utilizzare i brani firmati da Hendrix stesso, per esplicita volontà degli eredi: niente "Hey Joe" e "Purple Haze", quindi, con il momento di climax live (tipico dei biopic musicali) delegato curiosamente alla cover di Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band, eseguita di fronte ai Fab Four. Considerato l'handicap grave di partenza con cui Jimi: All is by My Side ha dovuto fare i conti, lo sforzo di Ridley è encomiabile e induce a sorvolare sui molti punti di debolezza del film, che insiste sul ruolo di Imogen Poots - nei panni di Linda Keith - fino a renderla una sorta di coro, un punto di riferimento morale che veglia sulla vita di Jimi cercando di indicargli la retta via, sistematicamente smarrita.
L'icona rock è affidata alla sorprendente interpretazione di André Benjamin, rapper degli Outkast, che unisce a una straordinaria somiglianza fisica un notevole lavoro sulla caratterizzazione vocale. Notevoli tuttavia i deficit di scrittura, tali da far apparire Jimi perlopiù come un hippy superficiale che parla di colori e marziani destinati a tornare sulla Terra, con contorno di violenze domestiche e gratuite sulle malcapitate compagne. Una riduzione ai minimi termini del Mito che suona ancor più contraddittoria perché evidentemente involontaria, in un testo che si presenta come tutt'altro che critico verso l'oggetto della narrazione. Anche il confronto con l'impegno politico del militante nero Michael X resta abbozzato e non sortisce gli effetti sperati nella storicamente difficile contestualizzazione socio-politica di Hendrix (secondo la leggenda un ribelle iconoclasta, ma con pochi riscontri nelle testimonianze dirette).
L'uso insistito di un montaggio che spezza il flusso diacronico, anticipando visioni di ciò che verrà, e di un cross-dialogue che ben si sposa con la confusione dei locali bui frequentati dal protagonista, rappresentano un interessante tentativo di uscire dagli schemi più vetusti del biopic, tradito dallo stesso Ridley con il ricorso a freeze-frame enfatici che introducono la comparsa dei vari Clapton e McCartney nella vita di Hendrix.
Un'operazione non priva di fascino, in cui prevalgono i "se" e i "ma" su quel che avrebbe potuto (e dovuto) rappresentare rispetto alle riflessioni che scaturiscono da quanto effettivamente messo in scena.

lunedì 22 settembre 2014

Milonga: Biko


Prima volta dopo le vacanze. 
Tanta gente come ai tempi belli. Musica quella che ci piace, con alcune novità
Inizio molto buono con ballerina sconosciuta, resto della serata piu difficoltoso dal punto di vista dei risultati.



venerdì 19 settembre 2014

Cinema: Frances Ha

Un ritratto curioso, ammirato e ammirabile di una giovane donna di oggi e dell'attrice Greta Gerwig
Marianna Cappi      *  *  *  *  -

Frances vive a New York ma non ha un vero appartamento, è un'aspirante ballerina ma non fa veramente parte della compagnia con cui danza. La sua migliore amica, Sophie, è per lei un'altra se stessa "con capelli differenti", ma quando Sophie conosce Patch e si trasferisce da lui, Frances deve imparare a badare se stessa da sola. 
Come Gena Rowland per Cassavetes, Mariel Hemingway per Woody Allen o Anna Karina per Godard, Greta Gerwig si offre all'obiettivo di Noah Baumbach nella sua eccezionale quotidianità, o quotidiana eccezionalità che dir si voglia. Il filtro dello sguardo è tanto curioso quanto affettuoso e non si sa se sia più la Gerwig ad offrire l'anima a Francis, la protagonista del film, o la sceneggiatura del film, scritta dal regista, ad offrire all'attrice quanto di meglio potesse chiedere. 
Il bianco e nero aggiunge una prospettiva romantica e atemporale che si adatta alla perfezione a questo ritratto di una ragazza di oggi, in viaggio da un appartamento da dividere all'altro, che deve fare i conti con aspirazioni smisurate e soldi contati, ma è allo stesso tempo e prima di tutto una donna, che potrebbe appartenere a qualsiasi epoca. Ciò che invece rende Francis un personaggio, o "carattere", è il possesso di un punto di vista sul mondo assolutamente personale. Non siamo di fronte ad una bambinona cresciuta o, se è anche questo, lo è nel suo aspetto meno comodo e patologico: Francis sa quello che vuole, semplicemente, suo malgrado, non ce l'ha. Non ha il talento per danzare nella compagnia di ballo né il potere di impedire alla sua migliore amica di innamorarsi e andarsene. Eppure guarda al mondo (e cioè vive) con innata gioia, senza pigrizia, supplendo da sola alle sue stesse continue goffaggini. Non potrebbe far parte delle "Girls" di Lena Dunham, come la presenza di Adam Driver potrebbe indurre a ipotizzare, perché non è alla ricerca dell'amore passionale ma di un'anima gemella, com'è la sua amica, con la quale divertirsi con poco e amare insieme l'esistenza. 
Baumbach, che per primo diede alla Gerwig visibilità internazionale in Greenberg, torna a lavorare con lei, nel frattempo divenuta la musa del cinema indipendente e cosiddetto mumblecore, e realizza questo piccolo gioiello, leggero, pudico e pieno di vita, anche quando fotografa il fallimento.

Carino nella prima parte, diventa piu lento e noioso nella seconda



martedì 16 settembre 2014

Milonga: MIB

Ero gia li per la lezione di prova di A&A.
Punto è Branca mette sempre bella musica ma non ho trovato grande ispirazione fra le ballerine presenti.. ballato solo con Paola e Giovanna, compagne di corso.. un po pochino.
a casa presto

sabato 13 settembre 2014

Mangiare: Ham Holy Burger

Hamburgeria in via Marghera, che punta sulla qualità ma strizza l'occhio ai giovanissimi con i sui menu si iPad.
Hamburger buoni, servizio velocissimo (ma erano le 19:00). 
Prezzi medio alti




il mio hamburger


Cinema: Si alza il vento

Si alza il vento, bisogna provare a vivere



Il film più personale del maestro mostra il personaggio maschile più bello della sua filmografia
(Gabriele Niola)  
 
Jiro Horikoshi, si presenta al pubblico in sogno, a bordo di un aereo di fantasia in un idillio minacciato da un bombardiere, è un ragazzo con la passione degli aeroplani che nelle sue proiezioni oniriche incontra il proprio idolo, il conte Caproni, grande progettista italiano, a cui confida di voler diventare anch'egli progettista. Durante l'università assisterà al terribile terremoto del '22 e poi troverà lavoro alla Mitsubishi. Studiando la più avanzata tecnologia tedesca cercherà di mettere a punto qualcosa di ancora più innovativo, in grado non solo di colmare il gap che separa il Giappone dagli altri paesi ma anche di superarli. In questi viaggi incontrerà l'amore della sua vita, la donna che lo accompagnerà nel processo creativo.
Nonostante siano evidenti i temi che da sempre dominano il suo cinema è una trama insolita, impegnativa e coraggiosissima quella che Hayao Miyazaki imbastisce nel suo decimo lungometraggio, un biopic sul grande progettista di aerei che diede vita ai rivoluzionari modelli Mitsubishi A6M Zero, tristemente noti per essere stati utilizzati dai kamikaze durante la seconda guerra mondiale. Un film il cui linguaggio e la cui grammatica audiovisiva ricordano più la messa in scena dal vivo che quella animata.
Le contraddizioni non sono certo una novità nel cinema del regista che ha superato il concetto di buono e cattivo, che ama i motori ma è un fervente ecologista e che adora gli aerei da guerra pur inneggiando alla pace, ma stavolta le affronta di petto. The Wind Rises mostra che le contraddizioni non sono barriere ed è possibile al tempo stesso amare e odiare. La sua forza è farlo senza usare le parole ma con la forma di uno straordinario cartone di due ore, un film-fiume che racconta attraverso un uomo l'epica di una nazione e del suo spirito, la sua dignità, la sua etica del lavoro, in un tour de force che segna il ritorno del maestro a una produzione per nulla pigra o ripiegata sui soliti topoi, lontana dai grandi capolavori del passato e audace.
C'è un'evidente identificazione tra il progettista di aerei e il disegnatore, il creatore di macchine e il creatore di sogni, un binomio che in Miyazaki, figlio di un ingegnere aereo, è particolarmente forte (spesso nei suoi cartoni vediamo meccanismi o veicoli volanti da lui inventati) e che trova momenti di rara bellezza nel sogno di Jiro e del conte Caproni (avendo le stesse aspirazioni i due si incontrano sempre nei medesimi sogni) ma forse anche dell'autore, di poter camminare liberamente sugli aerei mentre sono in volo. Jiro Horikoshi, è probabilmente il miglior personaggio maschile mai scritto dal regista, e non a caso appare come un alter ego di Miyazaki (a doppiarlo in originale è Hideaki Anno, l'autore di Neon Genesis Evangelion), amante del volo ma schifato dalla guerra, sostenitore del fatto che gli aerei non debbano avere mitragliatrici ma autore dei modelli poi affidati ai kamikaze, un uomo che sogna un bombardiere caricato con famiglie invece che armi.
Eppure è quando nella seconda parte The Wind Rises scivola dolcemente nel melò che il maestro dà il meglio, con una storia d'amore lieve e commovente come suo solito ma anche più matura che in passato (per la prima volta si vede un bacio francese e addirittura si suggerisce un atto sessuale). Quando la linea sentimentale accelera, tutto il film sembra volare ancora più in alto, specie nella maniera in cui la realtà è trasfigurata dalle visioni di Jiro, l'espediente con il quale Miyazaki sceglie di raccontare il processo creativo attraverso il sogno, il crescere di un'idea alimentata dalla passione, un misto di abnegazione e fantasia, intuizione e fatica.
Miyazaki torna a descrivere le emozioni più elevate, a raccontare lo splendore di essere vivi in questo pianeta, unito all'esigenza di continuare a vivere nonostante tutto (alla fine in un trionfo di linguaggio filmico non ci sarà nemmeno bisogno di dirlo basterà l'alzarsi del vento a scatenare l'emozione nel pubblico), utilizzando uno stile che rifiuta il tratto grosso e si ostina a dimostrare come si possano toccare le corde più profonde e stimolare gli stordimenti emotivi più vertiginosi attraverso lo stile più delicato e sottile possibile.


Un film da adulti girato a cartoni. Bellissimo, commovente, sognante. Sarà l'argomento.
da rivedere

venerdì 12 settembre 2014

Milonga: MIB

Riapre questo posto, gia testato anni fa come Bocanegra.
Il posto in se è abbastanza inquietante, una disco anni 90 o 2000, con una pista ad L piuttosto scivolosa. Insomma niente di che.
Ma era l'inaugurazione ed il DJ Auslander, quindi c'era quel tipo di gente che mi piace.
Ballato magari poco, ma molto molto bene, e chiaccherato piacevolmente.
Una bella serata!
Grazie a Lucia, Francesca, Vania e Marisa



giovedì 11 settembre 2014

Cinema: Quel che sapeva Maisie



Fotografia di un divorzio di oggi. Incorniciato dentro ambienti impeccabili e in generale dentro uno stile indipendente


Susanna è una madre disorganizzata e una rockstar non più giovane, impegnata a non uscire di scena. Beale è un papà in viaggio d'affari, che ha messo il lavoro davanti a tutto il resto. Maisie ha sei anni quando si ritrova contesa nella causa di divorzio tra i due. Coccolata o dimenticata, messa spesso in mezzo suo malgrado, la bambina si trova bene solo con Margo, la nuova moglie del padre, e Lincoln, il fidanzato della madre, che si occupano di lei con la dedizione e la sicurezza che i genitori non riescono a garantirle.
La derivazione del soggetto da un racconto di Henry James serve agli autori più che altro come fiore all'occhiello. Giustamente, come si conviene ad una fotografia contemporanea, i lati più apertamente ignobili dei genitori letterari sono stati espunti, così come il loro servirsi del tramite di Maisie per farsi la guerra come e più di prima della sentenza. Del matrimonio tra Beale e Susanna non sappiamo quasi nulla, se non che è una storia già finita prima che lui se ne vada ufficialmente, ma ciò che cambia le cose e segna il termometro dei tempi, è la motivazione per cui i due combattono per avere Maisie: una ragione affettiva, perché l'amore incondizionato della figlia è una riserva di affetto di cui hanno disperatamente bisogno per nutrire i loro narcisismi.
Posto che, rispetto al racconto ottocentesco, si sta raccontando un'altra storia, appare comunque evidente che dallo stereotipo (voluto) di una certa società arida e arrivista si è passati qui -meno volutamente- allo stereotipo degli adulti di oggi, egoisti e immaturi. Julianne Moore e Steve Coogan sono capaci di trovare qualche sfumatura nei loro personaggi, ma si rimane a chiedersi che interpretazione avrebbero potuto dare se solo ne avessero avuto la possibilità e i loro ruolo non fossero stati confinati a comparsate in squarci di situazioni. La stessa Onata Aprile nei panni di Maisie, giustamente incensata per la sua performance, trae il massimo da quel che le è concesso adoperare: ridotta al silenzio o quasi, si fa puro sguardo e con il solo sguardo regge l'arco intero del film, rispondendo in questo modo a due necessità drammaturgiche, quella di incarnare il punto di vista sulla vicenda e quella di rimanere un mistero.
Cosa sapeva Maisie , infatti, è tanto una dichiarazione di intenti (raccontare un divorzio esclusivamente attraverso i suoi riflessi sulla bambina) quanto la domanda che riempie il nocciolo sentimentale del film, perché cosa passi dalla testa della piccola non è dato sapere e, anche se nel finalissimo una risposta in un certo senso arriva, è per forza una risposta molto parziale. Per finire la carrellata, si dirà che Alexander Skarsgard e Joanna Vanderham hanno, da un lato, gioco facile, incarnando le figure positive e il romance che (insieme alla proverbiale resilienza dei bambini) fa del film una commedia anziché un dramma reazionario, ma dall'altro non sono esenti dalla polarizzazione eccessiva che investe tutti quanti i personaggi.
Incorniciato dentro ambienti impeccabili, metropolitani e non, e in generale dentro uno stile indipendente che idealmente calzava a pennello al soggetto e faceva ben sperare, Quel che sapeva Maisie scontenta parzialmente, perché la fotografia del reale non si fa mai cinema di pelle, di parola, di sensazione e la distanza non sempre è quella buona del pudore ma spesso è quella deludente della mancanza di profondità.

L'argomento è per me fastidioso ed il finale purtroppo irrisolto. Non so..

venerdì 5 settembre 2014

Cinema: In ordine di sparizione



Dark comedy ad ambientazione nordica con un cast eccellente

Norvegia, inverno. Nils, che è stato appena nominato 'uomo dell'anno' dai concittadini del piccolo villaggio in cui vive, è colui che si occupa di rendere accessibile la strada a bordo di un imponente spazzaneve. Quando suo figlio muore e la pratica viene archiviata perché trovato vittima di una overdose, l'uomo non accetta questa versione. Ha ragione perché si è trattato di un assassinio ordinato dal 'Conte', un giovane e sadico boss che controlla parte del traffico della droga in perenne contrasto con la banda dei Serbi. Nils decide di arrivare a lui ma per ottenere questo risultato molti dovranno morire.
Il titolo internazionale del film offre con precisione la scansione temporale dell'azione. Vedremo infatti sullo schermo il nome di chi muore in stretto 'ordine di sparizione'. Questa scelta ci mostra esplicitamente la chiave di lettura di un film che rivela delle paternità importanti (Kitano e Tarantino su tutti) e non ha pudore di dichiararle. Questi debiti vengono però in qualche misura sublimati dall'ambientazione e dalla coppia Stellan Skarsgård-Bruno Ganz che da sola basterebbe a giustificare l'apprezzamento per il film. A loro va aggiunto Päl Sverre Hagen che disegna un cattivo da fumetto iperrealistico che il cinema americano non può che invidiare. L'ambientazione è appunto uno dei punti di forza di questa dark comedy costellata di cadaveri. Il biancore delle distese innevate la fa da padrone e contrasta con il design della lussuosa abitazione del criminale indigeno e con l' "antichità" dell'arredo dello spazio occupato dal padrino serbo.
Sappiamo bene come in ambito letterario negli ultimi anni i 'gialli' scandinavi (a partire dal fortunato e bi-cinematografico Uomini che odiano le donne) abbiano raccontato quella società meglio di qualsiasi saggio sociologico. Hans Petter Moland non ha questa pretesa ma alcune riflessioni sul welfare e sul perché in Norvegia si raccolgano in strada gli escrementi dei cani, oltre che divertire propongono la mai troppo ripetuta necessità di ricordare che stereotipi e punti di vista altrui sono sempre difficili da sradicare. Qualche volta anche da comprendere.

Molto molto divertente! condivido la recensione

Fatto bene - Hamburger



Una bella scoperta, anche se cara.
Hamburger molto buoni e patate al forno sublimi.

Ambiente un pò rumoroso purtroppo.


martedì 2 settembre 2014

Milonga di Compleanno


Compleanno di Ilaria alla Comuna, dj Auslander.
Bella serata "di suo", anche se lo stato di poca forma continua anche se qualche miglioramento io lo vedo, non so se lo trasmetto.
Ballato abbastanza, molto sul sicuro.
Bene con Barbara e Sara, meno bene con le altre.


venerdì 29 agosto 2014

Cinema: Apes Revolution


Un film che attraversa diversi generi cinematografici con il passo spedito e appassionato del cinema di grande respiro abile tanto nei primi piani quanto nelle panoramiche


Sono passati dieci anni da quando delle scimmie rese più evolute da un virus confezionato dagli uomini sono evase e hanno combattuto gli esseri umani sul ponte di San Francisco. In questo periodo la razza umana è stata quasi annichilita da quello stesso virus che si è rivelato per loro letale, è rimasta in vita solo una piccola percentuale di persone naturalmente immuni. Dall'altra parte le scimmie, sempre capitanate da Cesare, si sono ritirate nella foresta, hanno creato una loro città, vivono in pace, cacciano e procreano nella convinzione che ormai gli uomini non esistano più. L'incontro tra le due razze (gli uomini devono avere accesso ad una diga vicino al villaggio delle scimmie per poter riottenere l'elettricità) porterà ad una spaccatura tra chi vuole la guerra e chi invece pensa si possa vivere in pace.
È affascinante come Apes revolution attraversi diversi generi cinematografici, partendo con titoli di testa tipici da cinema della pandemia (molto forte negli anni 2000, oggi lentamente scomparso), per deviare su suggestioni postapocalittiche con le città divorate dalla vegetazione come già abbiamo visto solo nell'ultimo anno in Transcendence e Divergent (anche se l'impressione è che l'archetipo visivo rimanga sempre il videogioco Last of us) e finire nel puro cinema di guerra, con l'azione che si mescola alle tattiche e le difficoltà nel mantenere il fronte interno. Tutto con il passo spedito e appassionato del cinema di grande respiro abile tanto nei primi piani quanto nelle panoramiche.
Questa volta al timone c'è Matt Reeves e la differenza si sente. Pur rimanendo dalle parti di una narrazione molto semplice e diretta, in cui tutto quel che c'è da sapere passa per i dialoghi o è chiaramente messo in scena, l'avventura della scimmia Cesare e del suo rapporto difficile sia con gli umani che con i suoi simili è raccontata con l'abilità necessaria a rendere la parabola una storia appassionante. Non è certo intenzione di Apes revolution innovare lo storytelling ma la maniera in cui interpreta questo preciso mix di generi guardando sempre il suo protagonista in faccia, partendo e tornando da lui e dai suoi occhi (come nell'apertura e chiusura del film), sembra l'unica possibile per fare di un film simile un'opera coinvolgente.
A partire da un inizio molto forte in cui le scimmie cacciano e nel quale con un solo grande salto vengono stabiliti i termini affettivi tra personaggi (cosa siamo disposti a fare gli uni per gli altri e con quale atteggiamento), Reeves mette in chiaro non solo la volontà di dare uguale spazio a uomini e scimmie ma soprattutto di trattare quest'ultime con la complessità che solitamente è riservata agli uomini. Così il film ha due poli d'attrazione e repulsione (in ognuna delle due fazioni ci sono buoni e cattivi) e senza dirlo mai afferma anche più che nel precedente (e anche più di Avatar che molto si era sforzato in questo senso) l'indistinguibilità tra falso e vero. Accostando moltissimo reale e digitale, mettendoli a confronto e in parallelo ne sfuma i confini.
Cesare è una scimmia creata al computer, non c'è nulla di vero se non i suoi movimenti sia corporali che facciali, tutti "catturati" attraverso i sensori del motion capture dal corpo e dal volto di Andy Serkis, attore maestro di questa tecnica. Quel che Cesare vive tra i suoi simili, la lotta che conduce per la pace, è speculare a quella che i protagonisti umani conducono tra i propri simili. Non ci sono scimmie e uomini ma pacifisti e guerrafondai, esseri spaventati che vogliono vendicarsi o azzerare il nemico ed esseri che cercano di vivere in armonia, Cesare come il buon Malcolm, la scimmia che odia gli umani Koba come il guerrafondaio interpretato da Gary Oldman. Un parallelo evidente che non è in nessun modo messo in difficoltà dal fatto che le scimmie sono esseri inesistenti, anzi che si esalta nei dettagli con i quali gli attori-scimmia fondono movimenti animali con altri più evoluti e umani, ragione e istinto, avvicinamento al passaggio evolutivo successivo e mantenimento di una radice bestiale. Un vero gioiello di minuzia recitativa.
Altro segno della volontà di dare alle scimmie la complessità necessaria a renderle protagoniste, rendendole qualcosa di più di una versione aggiornata del ruolo occupato dagli indiani nativi americani nei western revisionisti (vittime dell'uomo bianco, retti e immacolati, dotati di valori solidi e cristallini, ma mai realmente protagonisti solo specchi di purezza utili a mostrare il loro contrario, la brutalità di chi li combatte), è il fatto che gli incrollabili principi sbandierati dalle migliori scimmie non siano seguiti fino alla fine nemmeno da loro, fallibili e complessi come noi, come le espressioni che sono in grado di fare.

Non mi è piaciuto un grancheè. C'è tensione ma non mi ha convinto del tutto

giovedì 28 agosto 2014

Fotografia: Salgado - Genesi

Le 245 immagini in bianco e nero suddivise in 5 sezioni compongono un viaggio unico alla scoperta del nostro pianeta. In mostra fino al 2 novembre
Un progetto iniziato nel 2003 e durato 10 anni, un canto d’amore per la terra e un monito per gli uomini, Genesi di Sebastião Salgado rappresenta un contributo importante a questo dibattito. Con 245 eccezionali immagini che compongono un itinerario fotografico  in un bianco e nero di grande incanto, la mostra racconta la rara bellezza del patrimonio unico e prezioso, di cui disponiamo: il nostro pianeta.

Genesi è suddivisa in cinque sezioni che ripercorrono le zone in cui Salgado ha realizzato le fotografie: Il Pianeta Sud, I Santuari della Natura, l’Africa, Il grande Nord, l’Amazzonia e il Pantanàl. Il percorso espositivo presenta una serie di fotografie (tra cui molte di paesaggio) realizzate con lo scopo di immortalare un mondo in cui natura ed esseri viventi vivono ancora in equilibrio con l’ambiente.

Una parte del suo lavoro è rivolto agli animali che sono impressi nel suo obiettivo attraverso un lungo lavoro di immedesimazione con i loro habitat. Salgado ha infatti vissuto nelle Galapagos tra tartarughe giganti, iguane e leoni marini, ha viaggiato tra le zebre e gli animali selvatici che attraversano il Kenya e la Tanzania rispondendo al richiamo annuale della natura alla migrazione.

Un’attenzione particolare è riservata anche alle popolazioni indigene ancora vergini: gli Yanomami e i Cayapó dell’Amazzonia brasiliana; i Pigmei delle foreste equatoriali del Congo settentrionale; i Boscimani del deserto del Kalahari in Sudafrica; le tribù Himba del deserto namibico e quelle più remote delle foreste della Nuova Guinea. Salgado ha trascorso diversi mesi con ognuno di questi gruppi per poter raccogliere una serie di fotografie che li mostrassero in totale armonia con gli elementi del proprio habitat.

Viaggio unico alla scoperta del nostro ambiente, l’ultimo progetto di Salgado rappresenta il tentativo, perfettamente riuscito, di realizzare un atlante antropologico del pianeta, ma è anche un grido di allarme e un monito affinché si cerchi di preservare queste zone ancora incontaminate, per far sì che, nel tempo che viviamo, sviluppo non sia sinonimo di distruzione.

Sebastião Ribeiro Salgado nasce nel 1944 ad Aimorés, nello stato di Minas Gerais, in Brasile. A 16 anni si trasferisce nella vicina Vitoria, dove finisce le scuole superiori e intraprende gli studi universitari. Nel 1967 sposa Lélia Deluiz Wanick. Dopo ulteriori studi a San Paolo, i due si trasferiscono prima a Parigi e quindi a Londra, dove Sebastião lavora come economista per l’Organizzazione Internazionale per il Caffè. Nel 1973 torna insieme alla moglie a Parigi per intraprendere la carriera di fotografo. Lavorando prima come freelance e poi per le agenzie fotografiche Sygma, Gamma e Magnum, per creare poi insieme a Lèlia la agenzia Amazonas Images, Sebastião viaggia molto, occupandosi prima degli indios e dei contadini dell’America Latina, quindi della carestia in Africa verso la metà degli anni Ottanta. Queste immagini confluiscono nei suoi primi libri. Tra il 1986 e il 2001 si dedica principalmente a due progetti. Prima documenta la fine della manodopera industriale su larga scala nel libro La mano dell’uomo, (Contrasto, 1994) e nelle mostre che ne accompagnano l’uscita (presentata in 7 diverse città  italiane). Quindi documenta l’umanità in movimento, non solo profughi e rifugiati, ma anche i migranti verso le immense megalopoli del Terzo mondo, in due libri di grande successo: In cammino e Ritratti di bambini in cammino. (Contrasto, 2000). Grandi mostre itineranti (A Roma alle Scuderie del Quirinale e poi a Milano all’Arengario di Palazzo Reale) accompagnano anche in questo caso l’uscita dei libri.


Lélia e Sebastião hanno creato nello stato di Minas Gerais in Brasile l’Instituto Terra che ha riconvertito alla foresta equatoriale - che era a rischio di sparizione - una larga area in cui sono stati piantati decine di migliaia di nuovi alberi e in cui la vita della natura è tornata a fluire. L’Instituto Terra è una delle più efficaci realizzazioni pratiche al mondo di rinnovamento del territorio naturale ed è diventata un centro molto importante per la vita culturale della città di Aimorès





Mostra lunga, troppo lunga. 245 foto non ti permettono di concentrarti su nessuna in particolare, ti riempiono la testa di sensazioni, ti frastornano.