venerdì 26 dicembre 2014

Cinema: Viviane



Ricostruzione esemplare di un'anomalia del diritto di famiglia israeliano, ritratto femminile di rara forza
Raffaella Giancristofaro      *  *  *  1/2  -

Nel tribunale religioso di una località israeliana non specificata si esamina la richiesta di divorzio di Viviane Amsalem, che da tre anni ha lasciato il domicilio coniugale per incompatibilità col marito Elisha e risiede nel frattempo presso parenti. Per la legge israeliana, Viviane è un'emarginata sociale in libertà vigilata: non può avere nuove relazioni né una nuova famiglia. Non presentandosi alle udienze, Elisha allunga di proposito i tempi ed esaspera Viviane, il suo avvocato, i rabbini. Il dovere delle autorità religiose è preservare la "pace domestica", riconciliare le parti in causa e ascoltare le testimonianze degli amici veri e presunti della coppia. La vicenda si trascina tra rinvii continui, per cinque anni, concludendosi dopo un estenuante testa a testa tra marito e moglie, in un progressivo smascheramento di prevaricazioni e formalismi che non coinvolge tutti i presenti in aula.
Terzo capitolo di una trilogia iniziata con To Take a Wife (2004) e proseguita con Seven Days (2008), Viviane parte dallo stesso assunto di Una separazione dell'iraniano Asghar Farhadi ma si afferma come dramma legale puro. I toni oscillano per lo più tra tragico e paradossale, ma c'è spazio anche per una strepitosa parentesi comica femminile. Ricostruzione esemplare di un'anomalia del diritto di famiglia israeliano, che ancora oggi discrimina la donna rispetto all'uomo, per dirla con i suoi autori, Viviane è anche «una metafora della condizione delle donne in generale che si considerano "imprigionate dalla legge"».
Non da ultimo è ritratto femminile di rara forza, con una protagonista (Ronit Elkabetz, qui anche sceneggiatrice e regista con il fratello Shlomi) che riaggiorna il mito di Antigone opponendo una ferma, pazientissima resistenza a una norma inattuale. La scelta registica caratterizzante è la soggettività dello sguardo: tranne il finale (non a caso), il punto di vista è quasi sempre quello dell'interlocutore di chi è inquadrato. Costruito com'è per lo più di primi piani e frequenti sguardi in macchina, Viviane persegue con coerenza l'obiettivo di essere soprattutto interpellazione. Con numerosi cartelli insiste sul frazionamento del tempo, per sottolineare l'inestimabile valore di un'esistenza libera, qui ripetutamente offesa da un'autorità cieca.
Nonostante la fissità data dall'unità di luogo, il pretesto e il contesto che opprimono la protagonista e il linguaggio strutturalmente iterativo e formale del rito, il film stupisce per finezza di scrittura, molteplicità di registri e immediatezza, grazie al lavoro dei registi sul primo piano, in omaggio al cinema delle origini. Alla Quinzaine di Cannes 2014.

Non il mio genere di film, troppo legal e teatrale

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