domenica 19 luglio 2015

Cinema: Terminator Genisys


Il copione, confuso e approssimativo, frena il film. L'unico rilancio viene da Schwarzy, simpatico nonno cyborg
Marianna Cappi      *  *  -  -  -

2029. John Connor è a un passo dal guidare la resistenza umana alla vittoria definitiva sulle macchine, quando Skynet invia all'ultimo minuto un cyborg nel 1984 per uccidere sua madre, Sarah. John manda allora il suo braccio destro Kyle Reeves indietro nel tempo per proteggerla. Qui, Kyle trova Sarah in compagnia di un identico Terminator, riprogrammato, che le fa da guardiano dall'età di nove anni. Viaggiando nel tempo, Kyle rievoca anche strani ricordi, mai avuti prima, risalenti al 2017. Convince perciò Sarah a recarsi con lui in quell'anno per impedire la messa on line di Genisys, l'App dietro la quale si nasconde la stessa Skynet. 
C'è qualcosa di circolare e forse vizioso nel modo in cui ogni neonato film della saga si propone in realtà come la sua versione definitiva: a partire dal secondo, firmato ancora James Cameron, per arrivare a questo quinto, tutti indossano il motto per cui il futuro non è scritto, eppure ognuno ci tiene testardamente ad avere l'ultima parola. 
L'incursione più recente, Terminator Salvation, tentava - comunque lo si giudichi- la carta di lasciarsi alle spalle i viaggi nel tempo e trovava il suo presente filmico nel futuro e nella guerra uomo-macchina. L'eclettico Alan Taylor, invece, si affida alla penna di Patrick Lussier, il quale, infilata la parrucca da scienziato pazzo, mescola le carte come non mai. Al centro di Terminator Genisys c'è infatti proprio la sfera uterina che consente i trasporti temporali e che il tenente Reese frequenta, con malizia e senso della missione, con la stessa relativa facilità con cui Marty McFly guadagnava il sedile della sua DeLorean. Affianca questo movimento "reale" un twist narrativo maggiore, ampiamente anticipato in sede più o meno autorizzata di promozione, per cui l'eroe si macchia del crimine peggiore: John Connor perde la sua umanità e si manifesta come l'agente Smith di Matrix, replicante ubiquo e inarrestabile, nemesi perfetta dell'eletto. Qui però la scrittura comincia ad imbarcare acqua: si può gradire o meno la trovata, ma la stessa dovrebbe garantire un funzionamento interno, che invece fa cilecca. Troppo impegnata sentimentalmente come "figlia" di Paps, il T-800 che l'ha salvata, cresciuta e attesa con pazienza (invecchiando senza divenire obsoleto), Sarah Connor non trova proprio il tempo per intenerirsi di fronte ad un figlio cresciuto e luciferino. Lussier delega allora il dissidio interiore al personaggio di Kyle, amico fraterno di John, che va però in confusione quando apprende tutta la verità, in un parcheggio sotterraneo senza poesia alcuna, e qui si sfiora davvero la parodia. 
La regia non salva certo il film dai garbugli e dalle scarse finezze del copione: non c'è un'idea visiva e l'unica sequenza che cattura l'occhio umano è ancora quella del 1984, col nudo mapplethorpiano di Schwarzenegger. 
Se mai è proprio l'attore, in fin dei conti, l'unico a fornire una chiave di rilancio: decisamente più loquace del solito, giovane nei tormentoni e nonno nel fisico, vira l'imbarcazione senza vento verso la commedia, fa il simpatico terzo incomodo tra figlioccia e futuro genero, sorride a denti stretti, un po' per inerzia e un po' per ironia, cooptandoci, in fondo, a fare lo stesso.

Io mi sono divertito. Vero che certe cose non risultano molto plasusibili e John Connor è proprio sbagliato, ma il film si fa vedere.




giovedì 16 luglio 2015

Cinema: Lo straordinario viaggio di T.S. Privet


Il racconto di un'America dimenticata, lirica e meravigliosa, ripresa poeticamente grazie ad una tecnica 3D sempre funzionale alla narrazione
Alessandro Venier - Redazione SdC      *  *  *  *  -

T.S. Spivet ha dieci anni e vive in un ranch sperduto nel Montana insieme ai genitori e alla sorella Grace. T.S. Aveva un gemello, Layton, morto in un incidente con il fucile. Layton giocava a fare il cowboy, tutto muscoli e lazo. T.S. invece ha un'intelligenza superiore alla media, raccoglie dati e sperimenta. Ha inventato la macchina a moto perpetuo e ha spedito i suoi progetti. Un giorno il telefono squilla. L'istituto Smithsonian vuole conferirgli il premio Baird e T.S ora deve andare a Washington D.C. a ritirarlo. Nessuno ovviamente sa che lui è soltanto un bambino. Così, alle quattro della mattina, inizia l'avventura a bordo di un treno merci.
Lo straordinario viaggio di T.S. Spivet è un viaggio al contrario, da ovest verso est, in antitesi con il mito da frontiera americana. È un ritorno all'origine, un cammino solitario in cui il distacco dalla famiglia rigenera relazione. È un percorso spirituale, naturale processo silenzioso di accettazione della perdita. Metabolizzare l'assenza per rinascere. E riscoprirsi non solo intelletto, ritrovare in se stessi il lato mancante. Complementare.
Lo straordinario viaggio di T.S Spivet racconta un'America dimenticata, lirica e meravigliosa. Un'America sconfinata, ripresa poeticamente grazie ad una tecnica 3D sempre funzionale alla narrazione. Un mondo descritto attraverso gli occhi di un piccolo genio. E il parallelismo è facile, immediato. Un bimbo che inventa cose e un regista che crea storie. Jean-Pierre Jeunet è un artigiano, uno che si sporca le mani e, con il suo stile inconfondibile, plasma materia cinematografica. Scrive, disegna, riprende e dirige. La tecnica e la poesia si mescolano nell'unico grande obiettivo della creazione di un mondo unico, reale e immaginario. Fantasioso, appunto. Ci si trova nella favola onirica di un bimbo simile per natura ai coetanei Hugo Cabret e Pi. E i coetanei in sala, intanto, hanno accolto con lunghi applausi le divertenti avventure del piccolo genio. Non solo battiti di mani, ma boati e urla felici. Sono bambini, e sono il termometro della verità. E al Festival Internazionale del Cinema di Roma Lo straordinario viaggio di T.S. Spivet ha conquistato un po' tutti, grandi e piccini.

Commovente, bello

lunedì 13 luglio 2015

Milonga Loka

Non andavo in Comuna da molto. Non è cambiato niente, ma c'è l'aria condizionata e questo fa la differenza. Il DJ è Auslander che però ultimamente sta un pò troppo estremizzando e mette dei brani francamente imballabili. Non tutti ma certe tande sono impossibili.
Forzato dalla stanchezza e dal mal di testa l'ho buttata sull'interpretazione e devo dire che ho fatto almeno un paio di tande interessanti (Nicoletta su tutti). Purtroppo i brani imballabili mi hanno fatto interrompere a metà le tande con Marisa e Francesca e questo mi scoccia molto.

Alla fine mi girava la testa e facevo molta fatica a tenere l'equilibrio.
Bella serata però


venerdì 10 luglio 2015

Cinema: Big Eyes


Burton si ritrova solo in poche inquadrature, negli occhi di Amy Adams che guida e piange nell'unica scena notturna
Marianna Cappi      *  *  *  -  -

Quando carica la figlioletta sull'automobile e lascia il primo marito, Margaret Ulbrich è una giovane donna senza soldi, che dipinge per passione e per necessità quadretti semicaricaturali di bambini dagli occhi smodatamente grandi. Opere intrise di sentimentalismo e di un gusto kitsch, che raggiungeranno però un enorme e inaspettato successo quando a commercializzarle sarà Water Keane, secondo marito di Margaret e "wannabe artist" a tutti i costi. Spacciando i quadri della moglie per propri, per quasi un decennio, Walter costruisce un impero su un'enorme bugia, riuscendo ad abbindolare l'America intera. Finché Margaret non si ribella. Gli occhi sono lo specchio dell'anima, dicono. Eppure sotto gli occhioni dei milioni di "figli" dei Keane, si cela una delle più grandi frodi dell'arte contemporanea. 
In un'epoca, a cavallo tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, in cui l'arte femminile non era presa in seria considerazione, il plagio che Walter opera ai danni della moglie si racconta come una storia d'amore della stessa epoca, di quelle che cominciano con la seduzione e finiscono per alzare la voce se lei fa resistenza. Ma il femminismo è alle porte e Margaret ne è a suo modo una pioniera. 
Tim Burton è amico della vera Margaret Keane, ha comprato alcune sue opere in tempi non sospetti, e forse è solo con la motivazione dell'affetto che si spiega questo nascondersi del regista dentro il suo stesso film fino a rendersi quasi introvabile. Eppure Burton c'è, la sua è la firma nel primo strato, quello coperto dall'autografo a olio del plagiatore, ma bisogna davvero pensare che abbia giocato a mascherarsi lui stesso, parlando di furto d'identità, per spiegare un film così maledettamente illuminato dalla luce del sole, dove i personaggi vestono mise colore pastello in case color pastello con piscina e angolo bar. 
Mentre lascia che la biografia scritta dall'esperta coppia di sceneggiatori Scott Alexander e Larry Karaszewski proceda cronologica e fedele, e lascia altresì che Christoph Waltz furoreggi nell'arte dell'istrione, oltre la commedia e oltre la gigioneria, nell'incomparabile (s)vendita di sé che domanda il personaggio, Burton si nasconde in poche inquadrature, negli occhi di Amy Adams che guida e piange nell'unica scena notturna (che sono il sentimento ad ingrandire e non la matita o il trucco) o in quelli degli orfani del quadro "esagerato" (leggi mostruoso) che spariscono dentro la cassa di legno e lasciano il museo destinati ad un vero oblio. 
Nel resto del tempo, Tim Burton sparisce dietro al regista di Big Eyes, lasciandoci a misurare la differenza tra queste (s)fortunate creature seriali e altre creature dagli occhi grandi (in fondo, anche per lui è un marchio di fabbrica) di un cinema che fu, a chiederci se si sia mai veramente sostituito ai primi registi incaricati (gli stessi sceneggiatori), se questo film sia arte e se sia degno di figurare nella galleria delle opere da lui firmate. E forse ride, di sottecchi. Noi, invece, questa volta ci siamo divertiti un po' meno.

Non un gran che in effetti. Personaggi tutti sgradevoli e storia fastidiosa.


domenica 5 luglio 2015

Cinema: Suite Francese



Dibb interpreta il romanzo incompiuto di Irène Nemirovsky. L'intensità di Michelle Williams salva il film dalla calligrafia
Marianna Cappi      *  *  1/2  -  -

Sono i primi mesi dell’occupazione tedesca della Francia. Nella cittadina di Bussy, la sposa di guerra Lucile Angellier attende in forzata compagnia della suocera, fredda e dispotica, le rare notizie del marito prigioniero. Intanto, Bussy viene invasa dai soldati tedeschi, che prendono alloggio nelle le case degli abitanti. Nella villa di Madame Angellier viene dislocato l’ufficiale Bruno Von Falk. Sulle prime Lucile cerca di ignorare la sua presenza, ma ben presto i due giovani vengono travolti dalla passione.
Il regista Saul Dibb e i suoi produttori hanno deciso di girare in inglese, con interpreti inglesi, una storia pensata e scritta in francese da una scrittrice ebrea nata a Kiev che aveva fatto della Francia la sua patria (e da un suo compatriota è stata tradita e mandata a morire a Auschwitz). Non è possibile considerare accessoria la scelta linguistica, perché è proprio dei francesi che parla il romanzo incompiuto di Irène Nemirovsky, di ciò che la guerra ha fatto loro, ad ognuno di loro, descritto con un pennino da comédie humaine. D’altronde, è una scelta che descrive da sola il tipo di film che Dibb ha confezionato, che si potrebbe riassumere nell’etichetta del “film tratto da un best-seller” che aspira, legittimamente, a replicarne il destino.
In questa cornice illustrativa, dove non sono poche le belle inquadrature e la musica sostiene con misura il ruolo di spicco che le è affidato, la Lucile di Michelle Williams è quello che gli altri francesi non sono più: non è una delatrice, non è un’avida, né un’ingrata. È una donna che resta umana e anzi si schiude veramente solo ora al suo essere donna e creatura umana. Davvero, come recita la battuta più romantica del film, le uniche persone con cui la protagonista e il suo tenente hanno qualcosa in comune, sono l’una per l’altro. Attorno, la guerra ha rotto e corrotto.

Fortunatamente Dibb non stravolge il materiale di partenza e dunque non c’è troppo romanticismo in Suite Francese : l’amore non è felicità, ma solo l’ultimo rifugio della bellezza (di cui la musica del pianoforte è manifestazione e strumento), in un mondo fatto di orrore e perdita della dignità. A sua volta, la bellezza del film è tutta nella serietà e nella solitudine di Michelle Williams, che si porta in faccia quel mistero che ancora avvolge l’ultimo romanzo di Irène Nemirovsky e del quale è doverosamente impossibile venire a capo.
Rispetto a La Duchessa il passo avanti è palpabile: i costumi e lo stendardo tematico non offuscano la superficie principale del film come facevano là, né attutiscono il suo impatto emotivo. Merito, ancora, di un’attrice come la Williams, di cui non è facile dimenticare l’intensità delle espressioni (di Keira Knightley, invece, ricordiamo il cappello).


Cinema: Predestination


Un film-cattedrale che cerca di rendere semplice e comprensibile una trama dalla struttura complessa
Gabriele Niola     

Un agente della polizia temporale indaga su un caso di terrorismo. C'è una bomba pronta ad esplodere in un certo luogo e in un certo punto del tempo, eppure non riesce ad impedire la detonazione nonostante i tentativi che quasi gli costano la vita. I molti viaggi che deve compiere lo portano ad incontrare, reclutare e parlare con diverse persone che forse lo possono aiutare nella missione, tuttavia il continuo muoversi lungo la linea tempo sta cominciando a creare un po' di confusione nella sua testa.
Pensato come un rompicapo filmico, Predestination non nasconde fin dalla prima scena il meccanismo di svelamento parziale di ogni movimento su cui si basa. Per adattare "Tutti i miei fantasmi" di Robert Heinlein, i fratelli Spierig scelgono la strada impervia del gioco a nascondino con il pubblico. La medesima trama che su carta stampata si avvantaggia dell'impossibilità per il lettore di "vedere troppo", lasciando che descrizioni parziali creino quei buchi necessari allo svelamento che verrà, sullo schermo deve vivere di inganni continui. I volti, i fisici, le persone e i ritorni che lo spettatore potrebbe riconoscere da subito (di fatto rovinando il successivo effetto sorpresa), sono celati, mascherati, truccati o resi irriconoscibili con un armamentario di trucchi che vanno ai più poveri ai più ricchi.
C'è un'ambizione smisurata in quest'idea di cinema, quella di realizzare un'opera che sembra impossibile da mettere in scena mantenendo segreto il finale. Lo stesso i fratelli Spierig si imbarcano con ardimento nell'impresa di rendere semplice e diretta una trama che è esattamente il suo contrario, tentano di comunicare per immagini quel che sembra possa avere effetto solo a parole. Il risultato è ambiguo, vive di ottimi momenti e idee molto forti (il clichè del viaggio nel tempo è reso attraverso una suggestiva sparizione subitanea e potente, come se l'essere umano smettesse di esistere fragorosamente) ma anche di una certa fatica nelle lunghe spiegazioni e spesso di un po' di pigrizia, come nel caso del lungo racconto effettuato da uno dei personaggi, che di fatto abdica alla parola quel che spetterebbe alla messa in scena.
Il gioco del gatto col topo che Predestination conduce con lo spettatore forse necessitava di un minimalismo e una maestria più alte per raggiungere la perfezione, ma è indubbio che la coerenza con la quale Michael e Peter Spierig scrivono e dirigono questa piccola chicca di fantascienza travalichi i limiti del genere. Appassionati di labirinti mentali, ampi scenari fantastici in cui muovere i personaggi e piccoli mondi a parte come quello alternativo di Daybreakers, i due autori stavolta hanno animato un universo tra il noir e la fantascienza con la perizia degli ingegneri.
Il loro è cinema di architettura, film come cattedrali, apparentemente semplici ma sorretti da meccanismi complessi che la narrazione si sforza di rendere comprensibili. In questo caso la furia dei molti viaggi nel tempo del protagonista provoca un continuo spaesamento, che però suona corretto. Gli spettatori come il povero viaggiatore vivono spesso di una inconsapevolezza confusionaria, incapaci di comprendere al volo luogo e tempo dell'azione si trovano in una storia di cui comprendono solo piccoli pezzi, almeno fino al finale.

Un altro di quei viaggi nel tempo in cui non si capisce niente fino al finale e che va poi ricostruito a posteriori.
Ma divertente