martedì 29 marzo 2016

Milonga: ARCI Bellezza

Sto quasi diventando un abituée. Nonostante lo spazio limitato e la presenza di un gruppetto di "imballabili" che mi da un pò fastidio, devo dire che mi diverto sempre, unendo vecchie e nuove conoscenze e ballando mediamente bene.
Ieri ho inanellato un paio di tande molto belle, ballate bene sulla musica. Poi pian pianino mi sono spento causa stanchezza.
Devo dire che quella sosta forzata di mezzora alle 24 per le esibizioni mi toglie voglia ed energie.


lunedì 28 marzo 2016

Cinema: Ave Cesare


Il primo film dei Coen che mi piace: un divertissment ben recitato, ben diretto, ben montato.

I Coen trasformano un dibattito teologico in un mare di risate, senza mai smettere di far pensare
Giancarlo Zappoli      *  *  *  1/2  -


Mentre sull'atollo di Bikini gli Stati Uniti sono impegnati con gli esperimenti sulla bomba H, a Hollywood Eddie Mannix si deve occupare di trovare una soluzione ad un altro tipo di problemi. Eddie è un fixer, cioè colui che deve tenere lontani dagli scandali in cui si vanno a ficcare le star che stanno lavorando ai film di un grande Studio. Deve quindi far sparire foto osé e cercare di camuffare gravidanze fuori dal matrimonio. Quando poi accade che scompaia il protagonista di un film su Gesù, nei panni di un centurione romano, la situazione si complica. Anche perché costui è stato rapito da un gruppo di ferventi comunisti.
Sono davvero pochi i registi in attività forniti di una solida conoscenza di tutti i generi cinematografici e della loro evoluzione nel corso della storia del cinema. I fratelli Coen fanno di diritto parte di questa ristretta cerchia. Il loro pregio ulteriore è quello di saperli declinare secondo letture che vanno dal dramma di impianto intellettuale alla commedia più brillante. 
Nell'ormai lontano 1991 (datazione che ci offre la misura della loro tenuta) la vicenda hollywodiana dello sceneggiatore Barton Fink finiva tra fiamme allucinatorie. Oggi il fil rouge di critica allo star system si è affinato grazie ad un'ironia che non nasconde l'amore per il cinema del passato ma lo depura da qualsiasi sospetto di nostalgia rétro. Le vicende del cattolicissimo Eddie Mannix (che confessa anche quante sigarette fuma di nascosto) ci fanno entrare in un mondo che ci ricorda ciò che affermava un vero sceneggiatore, Ben Hetch: "Io odio gli attori!". Qui sono tutti adatti a un ruolo ma goffi e incapaci di vivere o di accettare possibili mutamenti di caratterizzazione. Su tutti emerge il Baird Whitlock di George Clooney tanto abile sul set (anche se con qualche fondamentale defaillance) quanto capace di farsi incantare da abili mistificatori. 
Tra fondali finti e improbabili farm del West, i Coen ci ricordano anche come la fabbrica della finzione si nutra di un pubblico che ha fame di affabulazioni che stanno dentro e fuori dallo schermo. A quelle 'fuori' pensano le due gemelle giornaliste, interpretate da Tilda Swinton, sempre a caccia di quegli scandali che Eddie deve coprire per contratto. Così i due fratelli ci spingono a considerare quanto siano cambiati i costumi: oggi gli scandali delle star del mondo dello spettacolo non si nascondono, si creano ad arte. Sanno però fare anche molto di più: chi pensava di non poter assistere nella vita a un dibattito teologico e/o a uno sul materialismo dialettico senza annoiarsi profondamente sarà costretto a ricredersi. Anche perché se nel film precedente (A proposito di Davis) il gatto la faceva da padrone qui, davanti a un cane che si chiama Engels, non si può fare a meno di divertirsi sapendo che, come sempre con i Coen, non si sta smettendo di pensare.


Museo Teatro alla Scala


sabato 26 marzo 2016

venerdì 18 marzo 2016

Cinema: lo chiamavano Jeeg Robot

Convinto dal passaparola, una bella scoperta



 
 

Un trionfo di puro cinema d'intrattenimento, il primo vero superhero movie italiano
Gabriele Niola      *  *  *  1/2  -


Enzo Ceccotti non è nessuno, vive a Tor Bella Monaca e sbarca il lunario con piccoli furti sperando di non essere preso. Un giorno, proprio mentre scappa dalla polizia, si tuffa nel Tevere per nascondersi e cade per errore in un barile di materiale radioattivo. Ne uscirà completamente ricoperto di non si sa cosa, barcollante e mezzo morto. In compenso il giorno dopo però si risveglia dotato di forza e resistenza sovraumane. Mentre Enzo scopre cosa gli è successo e cerca di usare i poteri per fare soldi, a Roma c'è una vera lotta per il comando, alcuni clan provenienti da fuori stanno terrorizzando la città con attentati bombaroli e un piccolo pesce intenzionato a farsi strada minaccia la vicina di casa di Enzo, figlia di un suo amico morto da poco. La ragazza ora si è aggrappata a lui ed è così fissata con la serie animata Jeeg Robot da pensare che esista davvero. Tutto sta per esplodere, tutti hanno bisogno di un eroe.
Quello tentato da Gabriele Mainetti è un superhero movie classico, con la struttura, le finalità e l'impianto dei più fulgidi esempi indipendenti statunitensi. Pensato come una "origin story" da fumetto americano degli anni '60, girato come un film d'azione moderno e contaminato da moltissima ironia che non intacca mai la serietà con cui il genere è preso di petto, Lo chiamavano Jeeg Robot si muove tra Tor Bella Monaca e lo stadio Olimpico, felice di riuscire a tradurre in italiano la mitologia dell'uomo qualunque che riceve i poteri in seguito a un incidente e che, attraverso un percorso di colpa e redenzione, matura la consapevolezza di un obbligo morale.
Il risultato è riuscito oltre ogni più rosea aspettativa, somiglia a tutto ma non è uguale a niente, si fa bello con un cast in gran forma scelto con la cura che merita ma ha anche la forza di farlo lavorare per il film e non per se stesso. Claudio Santamaria è il protagonista, outsider da tutto, un po' rintronato e selvaggio, avido, alimentato a film porno, pieno di libido ma anche dotato della dirittura morale migliore; Luca Marinelli è la sua nemesi, piccolo boss eccentrico e sopra le righe, spaventoso e sanguinario con i suoi occhi piccoli e iniettati di follia ma anche malato di immagine (ha partecipato a Buona Domenica anni fa e sogna di diventare famoso e rispettato con il crimine), l'anello di congiunzione tra la borgata di Roma e il Joker. Intorno a loro un trionfo di comprimari tra i quali spicca (per adeguatezza alla parte e physique du role) Ilenia Pastorelli.
Il duo creativo Mainetti/Guaglianone (regia e sceneggiatura) si era già fatto notare anni fa, prima mettendo in scena Lupin III con attori romani (tra cui Valerio Mastandrea nella parte principale) nel corto Basette e poi con Tiger boy (alla lontana ispirato a L'uomo tigre). I due, con la collaborazione alla sceneggiatura di Menotti, hanno così costruito un percorso creativo e tecnico originale centrato sulla forza dell'ispirazione. Ciò che nel loro primo lungometraggio emerge infatti è come le storie che assorbiamo influenzino la nostra vita, come siamo i primi a desiderare una narrazione di noi stessi. Alessia crede che Jeeg Robot esista, Enzo sa bene che non è così eppure lentamente comincia ad aderire alla sua visione senza senso per la quale è lui l'eroe, comincia a crederci e a ragionare in quella maniera. Da quando sostituisce i DVD porno con quelli della serie animata nella sua dieta mediatica inizia anche a maturare un'altra consapevolezza, dentro di lui germogliano altri concetti. Guardando un mito e assistendo alle sue storie egli stesso si "fa" personaggio.
Ma anche a un livello più immediato quello di Lo chiamavano Jeeg Robot è un trionfo di puro cinema, di scrittura, recitazione, capacità di mettere in scena e ostinazione produttiva, un lungometraggio come non se ne fanno in Italia, realizzato senza essere troppo innamorati dei film stranieri ma sapendo importare con efficacia i loro tratti migliori. Soprattutto è un'opera che si fa portatrice di una visione di cinema d'intrattenimento priva di boria e snoberia intellettuale, una boccata d'aria fresca per come afferma che il meglio di quest'arte non sta nel contenuto o nel tema ma nella forma (da cui tutto il resto discende). Nonostante un budget evidentemente inadeguato al tipo di storia Lo chiamavano Jeeg Robot è un trionfo di movimenti interni alle inquadrature, di trovate ironiche e invenzioni visive, un tour de force di montaggio creativo e fotografia ispirata (per non dire di effetti digitali a costo contenuto), tutto ciò che serve per raccontare un mito senza crederci troppo e divertendosi molto.


venerdì 4 marzo 2016

Cinema: Fuocammare

Film che fa pensare, riflettere.
gran film

Un film che ha il suo punto di forza nella totale onestà dello sguardo
Giancarlo Zappoli      *  *  *  *  -

Gianfranco Rosi racconta Lampedusa attraverso la storia di Samuele, un ragazzino che va a scuola, ama tirare sassi con la fionda che si è costruito e andare a caccia di uccelli. Preferisce giocare sulla terraferma anche se tutto, attorno a lui, parla di mare e di quelle migliaia di donne, uomini e bambini che quel mare, negli ultimi vent'anni, hanno cercato di attraversarlo alla ricerca di una vita degna di questo nome trovandovi spesso, troppo spesso, la morte.
Per comprendere appieno un film di Gianfranco Rosi è prioritariamente indispensabile liberarsi da una sovrastruttura mentale alla quale molti hanno finito con l'aderire passivamente e in modo quasi inconscio ed indolore. Si tratta del format dell'inchiesta giornalistico-televisiva che si concretizza in immagini scioccanti, in interviste più o meno interessanti finalizzate a un impianto (in particolare sulla tematica delle migrazioni) ideologicamente preconfezionato. O si è pro o si è contro la presa in carico del fenomeno e su questa base si costruisce la narrazione.
Rosi, come il Salgado che abbiamo potuto conoscere grazie a Il sale della terra diretto da Wim Wenders, si allontana in maniera netta da quanto descritto sopra a partire dalla scelta, fondamentale, di aborrire il cosiddetto documentario 'mordi e e fuggi' che vede la troupe giungere sul luogo, pretendere di capire in fretta o comunque di mettere in ordine i propri pregiudizi e ripartire quando pensa di 'avere abbastanza materiale'. Il regista è rimasto per un anno a Lampedusa entrando così realmente nei ritmi di un microcosmo a cui voleva rendere una testimonianza assolutamente onesta.

Samuele è un ragazzino con l'apparente sicurezza e con le paure e il bisogno di capire e conoscere tipici di ogni preadolescente. Con lui e con la sua famiglia entriamo nella quotidianità delle vite di chi abita un luogo che è, per comoda definizione, costantemente in emergenza. Grazie a lui e al suo 'occhio pigro', che ha bisogno di rieducazione per prendere a vedere sfruttando tutte le sue potenzialità, ci viene ricordato di quante poche diottrie sia dotato lo sguardo di un'Europa incapace di rivolgersi al fenomeno della migrazione se non con l'ottica di un Fagin dickensiano che apre o chiude le frontiere secondo il proprio tornaconto. Samuele non incontra mai i migranti. A farlo è invece il dottor Bartolo, unico medico di Lampedusa costretto dalla propria professione a constatare i decessi ma capace di non trasformare tutto ciò, da decine d'anni, in una macabra routine, conservando intatto il senso di un'incancellabile partecipazione. Rosi non cerca mai il colpo basso, neppure quando ci mostra situazioni al limite. La sua camera inquadra vita e morte senza alcun compiacimento estetizzante ma con la consapevolezza che, come ricordava Thomas Merton, nessun uomo è un'isola e nessuna Isola, oggi, è come Lampedusa.



mercoledì 2 marzo 2016

Teatro: La morte di Danton

Teatro di impostazione classica, ben recitato nei ruoli maschili (Robespierre su tutti).
Testo da ascoltare attentamente, t. Notevole



critto in sole cinque settimane tra il gennaio ed il febbraio del 1835 dal ventunenne (sarebbe morto solo tre anni dopo) Georg Büchner, in fuga dalle autorità dell’Assia dove era stato coinvolto in una rivolta, Morte di Danton (Dantons Tod) descrive l’atmosfera degli ultimi giorni del Terrore, la caduta di Georges Jacques Danton nel 1794 e l’antagonismo che lo contrappone a Maximilien Robespierre. Il discorso drammatico è concentrato sulla contrapposizione tra i due alfieri della Rivoluzione francese, compagni prima e avversari in seguito, entrambi destinati alla ghigliottina a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro. Danton non crede alla necessità del Terrore e difende una visione del mondo liberale e tollerante, anche se consapevole dei limiti dell’azione rivoluzionaria; il suo antagonista invece incarna la linea giacobina, stoica, intransigente, furiosa.
Büchner nutre Morte di Danton di temi tutti rilevanti per il nostro tempo: la natura della rivoluzione, il rapporto tra uomini e donne, l'amicizia, la classe, il determinismo, il materialismo, il ruolo del teatro stesso. Oggetto di rari allestimenti in Italia, Morte di Danton è stato messo in scena da Giorgio Strehler, Jean Vilar e più recentemente da Robert Wilson, Thomas Ostermeier, Christoph Marthaler. Mario Martone dirige per la prima volta al Teatro Stabile di Torino il capolavoro del grande autore tedesco.

Durata: tre ore più intervallo


Piccolo Teatro Strehler
dal 1° al 13 marzo 2016
Morte di Danton
di Georg Büchner
traduzione Anita Raja
regia e scene Mario Martone
con (in ordine alfabetico) Giuseppe Battiston, Fausto Cabra, Giovanni Calcagno, Michelangelo Dalisi, Roberto De Francesco, Francesco Di Leva, Pietro Faiella, Denis Fasolo, Gianluigi Fogacci, Iaia Forte, Paolo Graziosi, Ernesto Mahieux, Carmine Paternoster, Irene Petris, Paolo Pierobon, Mario Pirrello, Alfonso Santagata, Massimiliano Speziani, Luciana Zazzera, Roberto Zibetti
e con Matteo Baiardi, Vittorio Camarota, Christian Di Filippo, Claudia Gambino, Giusy Emanuela Iannone, Camilla Nigro, Gloria Restuccia, Marcello Spinetta, Beatrice Vecchione
costumi Ursula Patzak
luci Pasquale Mari
suono Hubert Westkemper
registi collaboratori Alfonso Santagata e Paola Rota
scenografo collaboratore Gianni Murru
si ringrazia per la collaborazione Bruno De Franceschi
produzione Teatro Stabile di Torino -Teatro Nazionale